Le mie quattro piccole morti - un racconto breve
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Le mie quattro piccole morti – un racconto breve

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Le mie quattro piccole morti

 

Morirai almeno quattro volte. Cinque, nel peggiore dei casi.

Questo mi era stato detto quando avevo vent’anni e nessuna morte ancora da contare.
Ora che di anni ne avevo quarantotto, almeno tre volte il gelido bacio della delusione mi aveva sciupato le guance e irrorato gli occhi.

Avevo venticinque anni la prima volta che morii.

Steso sul mio letto, un corpo adesso estraneo e capriccioso che fu amore mio fino al giorno precedente.
«Non mi tocchi più» quel corpo ripeteva.
Non so più come farlo senza farmi male, la mia mente rispondeva. Come spiegare, a uno sguardo così intenso, che l’amore può finire?
No, non il mio. Il suo. Glielo avevo letto negli occhi.

Il mese prima. Quando una sua carezza si trasformò nella lama sottile di un coltello sulla mia guancia, rossa di dolore.
La settimana prima. Quando il mio abbraccio divenne l’involucro di un corpo vuoto e annoiato.
Il giorno prima. Quando il mio ti amo divenne l’eco di una stanza vuota.

Avevo venticinque anni la prima volta che morii.
Ad uccidermi, un eccesso di carezze.

 

Avevo trentun anni la seconda volta che morii.

Soffocato dalle pareti bianche dello studio medico, una mano comprensiva carezzava la mia gamba che tremava. Avvertivo lo sguardo di mia moglie scontrarsi col mio viso troppo pavido per voltarsi e ricambiare il suo flebile sorriso.
Il medico parlava agitando le mani, ma avevo smesso di ascoltarlo subito dopo essere entrato nello studio. La mia mente immaginava un futuro che non ci sarebbe stato, né in quella stanza, né nei sogni più belli.

«Certo, si potrebbe tentare una terapia…».

T’immagino seduto a terra, sommerso di giochi che la mamma non avrebbe mai voluto comprarti. Abbiamo occhi nitidi e sguardi complici. E quando alla macchinina salta una ruota tu me la porgi, pieno di speranza. Nella tua testa io sono padre e meccanico, autista e pasticcere.

E quando alla macchinina salta una ruota e tu me la porgi, io te la riparo, spiegando che non sarà un lavoro semplice, che dovrai lasciarmela per un paio di giorni, che ho notato anche una perdita d’olio.

E tu sorridi, un sorriso di denti minuscoli, e me la strappi dalle mani. Non vuoi aspettare un paio di giorni.

«…ma non ci sono certezze…».

T’immagino seduto sulle mie gambe. La mamma entra nella stanza e mi dà un bacio, a te due. Ci sorride. Hai visto quant’è bella?
Ci spostiamo sul divano, tu siedi al centro. E sopra alla tua testa troppo grande le mani mie e della mamma giocano a far la guerra, e poi l’amore.


E sopra alla tua testa, gli occhi fissi sulle guance di tua madre, penso che sei un piccolo miracolo.
E tu sorridi, un sorriso di chi vuol dormire dopo aver salvato il mondo dai cattivi.
Ed io guardandoti mi trovo e mi perdono.

«Lei è sterile. Non potrà avere figli».

Avevo trentun anni la seconda volta che morii.
Ad uccidermi, piccoli miracoli che non videro mai luce.

 

Avevo quarant’anni la terza volta che morii.

«Mi hai regalato una bella vita».
Le parole di mia moglie che mi regalava un’affettuosa bugia, l’ennesima.
«Mi mancherà sentirti battere a macchina le parole che non hai mai voluto farmi leggere».
Le parole di mia moglie che mi regalava un rimprovero, il più dolce.
«Ti amo».
Le parole di mia moglie che mi regalava una carezza, l’ultima.
Le parole di mia moglie che moriva con un sorriso sereno e le mie lacrime sugli occhi.

Avevo quarant’anni la terza volta che morii.
Ad uccidermi, una catena spezzata nel punto più forte.

 

Ho quarantotto anni e il peso di riflessi sulle spalle.

La leggerezza di un ti amo detto alla persona sbagliata.
L’eco di un bambino e di sua madre, la cioccolata calda la mattina e il ronzio della tivù la sera.
La minuscola mano di un miracolo mai avvenuto che mi carezza la guancia rendendola morbida.
Il risveglio al mattino accanto a un corpo caldo e sincero.

Ho quarantotto anni e batto a macchina con una mano sola.
Il rumore produce parole, le parole producono ricordi d’inchiostro.

Ho quarantotto anni e batto a macchina con una mano sola.
L’altra mantiene una pistola.

E mentre il sangue firma il racconto di amori mai nati o spezzati,
non morirò mai più
penso,
in un ultimo parossismo di vita.

Avevo quarantotto anni l’ultima volta che sono morto.
Ad uccidermi, il peso di una vita mai compiuta.

 

Giuseppe De Filippis

 

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Giuseppe De Filippis
Studente di scienze politiche, vive a Napoli. L’attualità è l’amorevole moglie che lo fa sentire al sicuro, la letteratura la sua amante capricciosa. Inesorabilmente devoto alla poesia e all’orrido non necessariamente in quest’ordine. Ha un dattiloscritto nel cassetto. Ha da poco capito che il cassetto è se stesso.