Pelle che brucia
Racconti Brevi

Pelle che brucia – anatomia soggettiva della memoria

Tempo di lettura: 2 minuti

 

 

… che il mondo era uno sbaglio di Dio,
Io uno sbaglio nel mondo.
(Primo Levi)

 

 

Quando penso a un ricordo felice m’immagino sempre con gli occhi socchiusi perché c’è troppa luce. Occhi rivolti verso il basso, solitamente i prati, che ricordo anche quando non ci sono.
E forse non c’è nemmeno tutta quella luce che m’inonda e che mi confonde la memoria. Magari sarà stato cattivo tempo.
Eppure ricordo bene la corsa ad Hyde Park a rincorrere scoiattoli, la carta d’identità persa e la pioggia scrosciante di Londra che nel mio ricordo diventa sole, e poi luce, e poi calore.

 

La nostalgia invece si materializza con colori opachi e odori che non ho più il coraggio d’inalare. E così quando anni dopo mi ritrovo ad annusare lo stesso ammorbidente che un tempo mi regalava solo il tuo maglione, quello è un brutto giorno, e so già che non potrà migliorare.
E forse non è nemmeno lo stesso profumo, forse solo una nota, nascosta, potrebbe ricordarmi di te, e del cotone blu che indossi – o indossavi – quando a cena si litigava.

 

Il panico ha il colore delle lenzuola del letto che mi tiene prigioniero.  Ha anche un rumore, quello di scale di ferro e dei miei passi incerti, perché – lo giuro – anche bere, di notte, può essere terribile.
E forse quell’ombra che vedo è solo una sedia, e allora accendo la luce, ed è solo una sedia.
Eppure io ti guardo, seduto, che mi fissi e non mi parli.
E non lo farai mai più.

 

Di sangue e di ferro è il sapore di un ricordo doloroso.  Come quello di quando ci si morde le labbra spinti da una fitta che vorremmo cancellare o rivivere. Nessun rumore, perché il dolore ama nascondersi nel silenzio dei forse, avrei potuto.
E forse avrei potuto prendere decisioni diverse, il giorno in cui ho dormito così tanto da non sentire il telefono, e la porta, e il mondo fuori, perché il mondo dentro, seppur tremendo, mi sembrava l’unico che fosse in grado di ospitarmi.

 

Il ricordo della morte è una telefonata al mattino. Non ha odori, né colori a cui mi aggrappo. Ma ha il sapore degli specchi opachi, in cui, se guardi un po’ più a fondo, trovi un riflesso nuovo ogni giorno. Fin quando, una mattina, sciacquandoti il viso e alzando la testa, non ti trovi invecchiato, spento. E in quello specchio quasi ci vorresti entrare, per diventare un riflesso e non sentire, non provare più.
Mai più.

 

Il ricordo che ho di me, invece, ha l’odore di pelle che brucia. Pelle che s’infiamma quando penso a ciò che sono stato, a ciò che non sarò mai.
il colore è quello della miseria da cui scappo e che mi porto dentro, come la pioggia di Londra, il maglione blu, la sete, il mondo fuori, i riflessi che invecchiano.
Il sapore è quello dell’ultimo desiderio del condannato a morte.
In ritardo per spezzare le catene,
troppo breve per farne una poesia.

 

Giuseppe De Filippis

 

 

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Giuseppe De Filippis
Studente di scienze politiche, vive a Napoli. L’attualità è l’amorevole moglie che lo fa sentire al sicuro, la letteratura la sua amante capricciosa. Inesorabilmente devoto alla poesia e all’orrido non necessariamente in quest’ordine. Ha un dattiloscritto nel cassetto. Ha da poco capito che il cassetto è se stesso.