Cronache da Biografilm
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Cronache da Biografilm 2020: singolo, società e percezione di sé

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In attesa della serata di premiazione che si terrà stasera alle 20.30 presso il Cinema Medica (con possibilità di prenotazione alla diretta live), concludiamo le nostre cronache da Biografilm Festival 2020 con un resoconto di altri quattro documentari. Per questo ultimo appuntamento ci siamo dedicati al cinema internazionale: dagli Stati Uniti alla Svezia, dalla Norvegia alla Cina, quattro storie di vita che raccontano la continua lotta tra le aspirazioni del singolo, la sua percezione del mondo e la problematicità di quel reale nel quale ciascuno di noi si trova a vivere.

Self Portrait di Katja Hogset, Margreth Olin, Espen Wallin (Contemporary Lives)

Lene Marie Fossen è anoressica dall’età di dieci anni.  All’inizio del documentario ne ha ventotto, ha un corpo minuscolo e un viso consumato dalla malattia: il suo disturbo ha impedito che il suo fisico attraversasse tutte le fasi di crescita: non è mai entrata nella pubertà e diverse parti del suo corpo hanno subito danni irreversibili a causa della malnutrizione. Quando i registi ce la presentano è lei stessa a dirci, con una dolcissima voice over che ci accompagnerà per tutta l’opera, di essere terrorizzata sin da bambina dalla percezione del tempo che passa, della crescita del proprio corpo e dell’incombere della morte. Grazie al supporto delle interviste fatte ai genitori, del materiale di repertorio e delle parole della stessa Lena, il documentario ripercorre con delicatezza tutte le fasi evolutive della malattia, seguendo la lotta della protagonista per ben cinque anni dall’inizio delle riprese.

Il racconto di questo viaggio attraverso l’esperienza autodistruttiva del proprio corpo viene però affrontato anche attraverso la più grande passione della protagonista: la ritrattistica fotografica. La lotta contro se stessi si trasforma allora in osservazione della propria malattia, condotta grazie a un occhio fotografico che permette un cambio di prospettiva e dunque una rivoluzione della percezione di sé: da «edificio in macerie» il suo corpo diventa l’unica possibilità di continuare a scattare, le foto l’unico strumento per fermare il tempo e raccontare la propria interpretazione del mondo. Il lavoro di accostamento delle immagini fotografiche alle parole e alla presenza in video della stessa protagonista permette allo spettatore di avvicinarsi davvero al significato di un dramma, quasi mai esplicitato a chiare lettere eppure sempre presente nello sguardo malinconico e nella imponente presenza di un corpo lacerato. Davvero commovente poi lo spazio riservato all’esperienza dei genitori, in particolare quella della madre: in ogni singolo fotogramma la troviamo a fianco a Lene, la sua preoccupazione si misura in sguardi e attenzioni, tanto abbondanti quanto consapevoli della propria impotenza rispetto alla condizione della figlia. La delicatezza di tono e insieme la completa adesione al dolore della malattia rendono Self Portrait uno dei contributi più interessanti degli ultimi anni sul tema della corporeità, sulle sue contraddizioni e sulla capacità dell’arte di far rientrare il singolo di nuovo in contatto con se stesso.

#Unfit – The psychology of Donald J. Trump di Dan Partland (Contemporary Lives)

Per continuare a ragionare sulla percezione di sé, il documentario di Dan Partland ci traghetta negli Stati Uniti, nella stanza ovale della Casa Bianca e di fronte all’uomo più chiacchierato del momento. Donald Trump e la sua fenomenologia sono infatti al centro di #Unfit, racconto del regista statunitense sulle logiche psicologiche e sociali che stanno dietro al successo politico dell’«uomo più arancione del mondo»: dalla diagnosi di sociopatia narcisistica all’osservazione delle sue strategie di comunicazione, l’opera di Partland procede per interviste a esperti e raccolte di materiale di repertorio, mantenendo un ritmo serrato e conquistando lo spettatore a forza di ironie e succosi aneddoti. Persuasivo nei modi e ben calibrato nei contenuti, il percorso attraverso gli oscuri anfratti della mente del presidente riesce addirittura ad aprirsi a un’analisi di più ampio respiro sulle ragioni sociali, politiche e culturali che muovono l’intero popolo dei supporter di Trump. Dall’ironia si passa allora al dramma vero di una crisi identitaria e culturale che si esprime tramite le voce della disperazione, della rabbia e dell’intolleranza: sentimenti estremi e incontrollabili, che se ben sfruttati e manipolati a dovere sono in grado di condurre un’intera nazione sull’orlo del baratro.

Fat Front di Louise Unmack Kjeldsen e Louise Detlefsen (Contemporaray Lives)

Si parla ancora di corpo con Fat Front, documentario che raccoglie le storie di quattro ragazze scandinave impegnate nella promozione del body positivity. Animate da un grande entusiasmo e sicure della bellezza delle proprie curve, le quattro giovani agiscono come parte di un movimento ribelle, stanche dei canoni di bellezza tradizionali e mosse dal desiderio di mostrare che è sempre possibile amare se stesse. Attività sui social, mercatini di abiti con taglie forti e sostegno reciproco sono la forza di questa strana e allegra comunità, che pare poggiare le sue basi teoriche sul movimento femminista degli anni settanta per riproporne il messaggio di apertura e condivisione. Per amare è necessario conoscere e accettare, solo allora il giudizio altrui diventerà secondario o addirittura ininfluente: posizione assolutamente condivisibile che le due autrici riescono a portare avanti, complice il ritmo accattivante e la particolarità delle singole storie.

I problemi iniziano però a porsi nel momento in cui la voce delle protagoniste smette di essere solo testimoniata dalle immagini per diventare un tutt’uno con esse: il loro messaggio diventa quello del film, il quale solo collateralmente si preoccupa di indagare le reali cause all’origine di quello che è a tutti gli effetti manifestazione di un disturbo da trattare con l’aiuto e il supporto di esperti. Persino troppo affine a una certa mentalità politically correct, Fat Front pecca nel concedere un’eccessiva indulgenza alle protagoniste e una sostanziale parzialità di sguardo su un fenomeno che sarebbe stato assai più proficuo osservare in tutta la sua contraddittorietà.

Half Dream di Dandan Liu (Biografilm Art & Music)

 

Dieci anni dopo la laurea all’Accademia di Belle Arti di Pechino, la regista Dandan Liu rintraccia tre vecchi compagni di università per ricostruire insieme a loro il loro percorso di formazione artistica e osservarne gli esiti. Il risultato di questo incredibile lavoro di archeologia della propria stessa storia è una riflessione, profonda e attualissima, sul valore della pratica artistica e sulla possibilità che essa diventi una vocazione oltre che una passione giovanile, un destino concretizzato in un mestiere che stia ben al di là del mero riconoscimento di un talento. Il contesto è quello della Cina degli anni Ottanta, con la politica del figlio unico e con un’educazione che mortifica l’autostima del singolo, le sue ispirazioni e le sue passioni per rendere il soggetto una questione di Stato. La lotta tra le strette maglie della società e la volontà di espressione di sé si concretizza nella malinconia di questi aspiranti artisti, che non ammetteranno mai un fallimento da loro pienamente vissuto con dolore e nella piena disillusione delle loro speranze.

Ma non si tratta soltanto del resoconto di un’esperienza di vita, perché osservando la quotidianità dei propri amici la regista individua la ragione di tali fallimenti nella prospettiva culturale deviata da un sistema politico totalizzante: impossibile che la propria interiorità possa essere promossa, nella realtà socio-politica cinese lo stato soffoca l’io, il singolo viene fagocitato nei meccanismi di un sistema produttivo che non lascia alcun margine di autonomia. La migliore amica di Liu e aspirante artista si è infatti rifugiata in un monastero buddista: l’abdicazione al proprio desiderio pare l’unica prospettiva esplorabile per evitare un sacrificio continuo e quotidiano. Danda Liu non la riconosce più, si domanda che fine abbiano fatto quelle passioni così forti che la tenevano in vita da ragazza e si ribella alla progressiva perdita della propria scintilla artistica. Lungi dal voler essere unicamente un affresco su una realtà esotica e a noi estranea, Half Dream è il resoconto di una straziante realtà per tutti coloro che, da oriente a occidente, si sono visti scivolare dalle mani il proprio desiderato futuro in nome delle mere leggi della sopravvivenza.

Letizia Cilea

 

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