sono ipocondriaco
Cronache di un BL

Sono ipocondriaco e, te lo assicuro, c’è poco da ridere

Tempo di lettura: 4 minuti

Non ricordo quando sia stata esattamente la prima volta in cui ho creduto di essere malato di qualcosa che mi potesse portare pian piano alla morte o ad una vita segnata dalla sofferenza.
Non sono state poche.
Ipocondriaci si nasce oppure si diventa? Non lo so.
A dire il vero non credo nemmeno che la semplice etichetta di “ipocondriaco” mi stia così bene addosso.
Ma se proprio devo essere tale agli occhi degli altri, provo a raccontare la mia storia in qualche flash.

Ricordo un bambino molto cagionevole, sempre troppo per poter correre come tutti gli altri dietro ad una palla. Soprattutto in inverno.
Mia madre che mi fa il nodo alla sciarpa e mi dice di tenere coperto anche il naso.
La tosse che non si ferma più fino a quella sensazione di soffocamento che non mi permette nemmeno di chiedere aiuto. Quei versi canini, da mostro – così si sentiva il me di pochi anni – e mia madre, di nuovo, col cortisone sciolto in un cucchiaio.
Dopo tutte le volte che l’ho sentito dire dalla dottoressa, ho imparato a chiamare quella cosa che mi succedeva col suo nome: laringospasmo.
Non so perché mi succedesse – mi sono sentito definire “soggetto allergico” innumerevoli volte – e credo sia una cosa che succede a un sacco di bambini.
Se ci penso, mi pare di sentire quella sensazione ancora oggi. Non so se è ipocondria, probabilmente sì.

Ricordo di quando dicevo di voler fare il medico per scoprire la cura per la malattia di mia zia.
Tutti intorno a me sorridevano amaro.
Doveva pur esistere, una cura.

Ricordo il mio secondo intervento chirurgico. Dalle mie parti si dice “quando andai sotto ai ferri”.
Un mese prima vomitai schiuma: «Ma no, è solo una cattiva digestione», fece la guardia medica.
«Signora, lei non ha capito. Il ragazzino ha un paio d’ore di vita se non lo operiamo subito. Appendicite e peritonite. Perché un mese fa non lo avete portato al pronto soccorso?».
Tento la fuga dall’ospedale. Non mi piacevano già più i medici e le medicine.
Mio padre mi fa credere di dover fare un’ecografia. Un attimo dopo ho l’ago con l’anestetico ficcato nel sedere. Prima di addormentarmi gli dico che non l’avrei mai perdonato.
Forse è per questo che, al mio risveglio, mi portò il giocattolo originale di Buzz Lightyear.
Io ero sul letto e li vedevo tutti strani: mio padre con quattro occhi, mia nonna con un paio di bocche. Una piacevole allucinazione.
Dopo qualche anno ho scoperto che si può raggiungere uno stordimento del genere anche facendo qualche tiro di cannabis in più.

Ricordo le prime volte in cui il cuore ha cominciato a battere all’impazzata.
Ero ai primi anni di liceo e non avevo veramente idea di cosa significasse la parola “ansia”. La pensavo una cosa brutta detta così, come un moltiplicatore di altre cose brutte che però in sé non volesse dire nulla.
Le prime scappate al pronto soccorso nel cuore della notte e il medico che, dopo qualche accertamento, mi rimandava a casa rassicurandomi di essere giovane e sano.
Ci volle poco a farmi etichettare come “malato immaginario”.
Diventai bravo a convincere mio padre – colui che al pronto soccorso doveva accompagnarmici –  che “questa volta sto davvero male, mi devi credere”.

Ricordo la mia prima seduta dallo psicologo e i libri dei classici greci dietro la scrivania. Mi diceva che stavo male perché i miei si erano separati.
Non gli ho mai creduto. Era un brav’uomo, però.

Ricordo il periodo della sicurezza in me stesso.
20 flessioni ogni mattina, petto in fuori e il mantra col quale mi illudevo costantemente di essere forte.
Non so se le prime ragazzine fossero affascinate più da questa illusione o dall’insicurezza che c’era dietro.
Ma tanto bastava per continuare a illudermi.

Ricordo il giorno in cui quello stesso periodo ha iniziato a finire.
Mamma ha mal di testa da due settimane e si comporta in modo strano.
Faccio una ricerca su Google? Ma no che non la faccio, è successo tante volte ma poi ho imparato a non auto-diagnosticarmi qualsiasi male.
La faccio.
«Pa’, quando arriva il risultato della tac? Ma non è che mamma ha un tumore al cervello?».

Ricordo la mia seconda esperienza con la psicoterapia.
Stavolta una donna. Per un sacco di tempo mi è sembrato di dire soltanto un sacco di cose a me stesso.
Ad un certo punto ho capito che quelle cose aspettavano soltanto di essere dette. L’ultima volta che ci sono andato, lei mi ha detto che non le ho mai parlato davvero di mia madre.

Ricordo tutte le volte in cui mi è stato detto che sono ipocondriaco.

Lo sono stato, probabilmente. In parte lo sono ancora e magari tornerò ad esserlo.
Non so se sono stato segnato da ciò che la malattia ha rappresentato nella mia vita. Ma un po’ di spiegazioni me le sono date.
Ciò che ho raccontato non è tutto. Anche perché, seppur con pochi flash, mi sento già nudo come un verme.
Oggi lo racconto perché, dietro certe consapevolezze, c’è stato un lavoro su me stesso costatomi anni, soldi, ma soprattutto tanta energia.
Per me l’ipocondria ha avuto a che fare con quella paura di essere sempre un po’ più debole degli altri, un po’ più mortale.
Oggi so che quella paura si può trasformare in un’arma potentissima.

“Ho passato tutta la vita ad avere paura. Paura di disgrazie terribili che potevano accadere oppure no. Per cinquant’anni ho vissuto nella paura, ritrovandomi sempre sveglio alle tre del mattino. Ma ora è diverso, da quando mi hanno diagnosticato il cancro ho cominciato a dormire bene […] Mi sono reso conto che è la paura la peggiore delle disgrazie. È la paura il vero nemico”.
(Walter White – Breaking Bad)

Se vi capita di conoscere una persona tanto impaurita dalle malattie e che fa di tutto – magari anche più del dovuto- per cercare di prevenirle, non mettetevi a ridere.
Quella persona farà il proprio percorso interiore. Forse non lo farà mai.
Sentenziare sui suoi mostri, però, non spetta a voi.

«Chissà come te la vivi, da ipocondriaco, la pandemia», mi è stato detto qualche volta.
Esattamente come la gran parte di voi.
Con la paura di essere contagiato e di contagiare.
Con la paura della malattia.
Con quella sensazione di essere così dannatamente fragili, così mortali.
Che quell’amico ipocondriaco abbia accettato di non essere eterno prima di voi?

Pietro Colacicco
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2 Comments

  1. Mi piace come lhai scritto, con quella leggerezza… che leggerezza non è! ho conosciuto pochi ipocondriaci , fra cui te, ma se sposto l’attenzione dalla patologia in quanto tale, alla persona che si è, allora sì che sei in buona compagnia : perché tutti hanno un immenso bisogno di prendersi cura di sé stessi, molti lo sentono, pochi lo manifestano. Dimmi se questa è o non è… ipocondria?

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Pietro Colacicco
Responsabile Editoriale di Borderlain.it. Laureato in Scienze Politiche, Sociali e Internazionali e Giornalista pubblicista dal 2017. Scrive per non implodere. Conosce a memoria la tabellina del 9.