Covid
Cronache di un BL

Covid: un’esperienza che mette a nudo con la paura di non respirare

Tempo di lettura: 5 minuti

Tocca di nuovo a me raccontarvi qualcosa che esca dagli schemi, dal ruolo nel quale ormai mi conoscete. Ho deciso di raccontarvi un’esperienza intima che mi ha messo difronte alla paura: essere un malato Covid.

Ci sono esperienze che ti segnano, che ti portano a condividere la precarietà di un momento e a fermarti per giorni: è il Covid, il virus che arriva, ti demolisce e poi resta lì a farti compagnia.

Dalle parole ai fatti tutta un’altra storia. Il Covid non è uno scherzo per davvero

Quante volte ho scritto del Covid su queste pagine? Tante e da tanti punti di vista diversi; mi mancava quello di malato che è decisamente tutta un’altra storia.

Il Covid mi è arrivato addosso con un leggero fastidio alla gola mentre mi preparavo per andare in ufficio. Rispettato l’abbigliamento adatto al ruolo che ricopro, afferro il mio portatile, chiudo la porta di casa e mi avvio verso in ufficio. 

Quante volte da piccolo mi hanno spedito a scuola con un leggero mal di gola: un sintomo insignificante che ho interiorizzato come banale, quindi non degno di nota. 

E in ufficio si sa: scambi due chiacchiere con i colleghi, saluti chi è appena tornato dalla settimana di ferie, ridi ad una battuta mentre verifichi la posta sul computer.

 Di tanto in tanto tossisci e una voce dentro di te ti dice di fare attenzione. Il pranzo si fa quasi da solo e così mi butto sul divano addormentandomi due ore cullato dal suono della televisione accesa sul TG.

Mi sveglio sotto un camion, intontito e sempre con la vocina che mi dice di andare a farmi un tampone. Un bellissimo sollievo quando la farmacista mi dà esito negativo, mi rassereno confortato dal fatto di non aver contagiato nessuno. 

Rientrato a casa il freddo mi aggredisce e, considerati i 37 gradi all’esterno opto per il termometro sotto l’ascella: 38 di febbre che fanno scattare la prima dose di tachipirina.

Covid: ricordarsi di respirare…

È notte, mi sento un toro sullo stomaco. Decido di farmi un tè che ha l’effetto dell’idraulico liquido; a notte fonda mi sblocco e mi rimetto a letto con una sensazione strana però: mi devo ricordare di respirare… Non mi piace: il mio corpo lo conosco e quella sensazione mi è sconosciuta. La paura aumenta tanto da chiedere l’intervento del 118.

La prima volta in vita mia che ricevo visita di due amici. volontari della stessa associazione locale, che mi verificano tutti i parametri. Dopo mezz’ora mi trovo su una barella spinta sull’ambulanza. Non è facile stare tranquilli quando ti provano la pressione, ti attaccano gli elettrodi in attesa del medico che dovrà giudicare l’elettrocardiogramma che ti hanno appena fatto. 

La sensazione è quella di essere in una condizione non grave ma neanche tranquilla e, nonostante il volontario ti rassicuri, le porte si chiudono e l’ambulanza inizia a muoversi.

Covid: le rassicuranti luci al neon

Te ne accorgi che intorno stanno tentando di farti stare tranquillo. Ecco, lo squillo di sirena che scatta ad un certo punto mi fa intuire che qualcosa preoccupa, ma il gentile volontario seduto sulla panca affianco a me lo giustifica con la necessità di attraversare un incrocio.

I neon freddi su di me mi rassicurano, so di essere al sicuro e che qualsiasi cosa accada la risolveranno. Dopo una veloce salita le porte si aprono, sfilano la barella dalle guide, la affiancano ad un altra e mi sollevano. Su di me inizia a scorrere una fila di neon, quelli del pronto soccorso più grande di Bologna. Mi attaccano un braccialetto che in poco spazio dice tante cose: come mi chiamo, quanti anni ho e che ho bisogno di essere affiancato.

Mi posizionano a fianco di un tubo verticale da cui l’infermiera estrae un tampone anti Covid che mi infila nel naso: sono ufficialmente un sospetto Covi che quindi va messo nel reparto giusto. In questo preciso momento mi accorgo della grande umanità di chi mi assiste: creano un’area ibrida consentendo a chi era con me di poter rimanere. 

La lunga notte con i “bip” delle maschere d’ossigeno.

Sdraiato sulla barella con a destra un armadio a muro e a sinistra la corsia comincia la lunga notte fatta di voci, suoni e qualche buco. 

Il suono che non abbandona mai la mia mente è uno, inconfondibile e mi terrorizza: il “bip” costante del respiratore nello scompartimento dietro di me. Quel suono mi porta molti pensieri, uno su tutti: «Speriamo di non doverci arrivare…». È la frase che mi ripeto ogni tanto girandomi sulla barella facendo attenzione alla flebo che mi hanno messo. Ascolto i colpi di tosse fino a mattina quando passa l’infermiera della colazione che, simpaticamente, mi salta perchè il mio sangue deve essere a disposizione. 

Non so neanche se sia sorto il sole quando arriva la certezza: ospitavo il Covid. Credo di non aver pianto solo perchè mi trovavo in un corridoio con delle persone. Una preoccupazione su tutte, un incubo: aver contagiato qualcuno… Ecco: dopo aver capito di non essere in pericolo questa è la preoccupazione più grande.

Fisso il soffitto a quadrettoni sopra di me in attesa del medico. Ascolto le discussioni che gli altri pazienti intrattengono con l’infermiera di turno: Trump, Draghi accompagnati da qualche bestemmia, non mancano i commenti sulla guerra in Ucraina. Temi che mi distraggono un po’ facendomi pensare, per qualche minuto, al mio mestiere.

Covid: arrivano le dimissioni

Al pronto soccorso comprendi la vera essenza della parola “paziente”: colui che ha pazienza. Una volta capito che non sei grave devi avere pazienza; ma stando in corsia capisco le condizioni altrui… Quindi aspetto… 

Ad ora di pranzo arriva il mio turno: mi ribaltano come un pedalino controllando cuore e polmoni che risultano a posto. Mi rivelano che l’oppressione al petto è dato dal Covid così mi dimettono.

Convalescenza: un momento di riappropriazione del tempo

Il Covid è come se tre tir carichi ti si piazzassero sopra rimanendo lì a lungo. Non riesci a fare niente: solo pensare al tempo che si è improvvisamente svuotato da impegni, date, orari. La debolezza non ti consente di impegnarti in niente, solo di riempirti la giornata di repliche trasmesse in televisione.

Non guardi un telegiornale da giorni, non ne hai voglia. Guardi solo gli attori che conosci passare sullo schermo. Le loro voci ti rassicurano e ti fanno compagnia in un dormiveglia. Nel frattempo il telefono si riempie di messaggi e mail a cui risponderai più avanti. 

Avere tempo libero non è il mio forte così mi invento cose da fare, libri da leggere e video interessanti da guardare sul portatile. Il libro della mia convalescenza da Covid sarà per sempre “Cambio di rotta” di Simone Monticelli e Lucia Gambelli: due persone che la rotta la hanno cambiata davvero. 

Covid: il suono che rimarrà per sempre dentro di me

Questa lunga esperienza la ricorderò per sempre. C’è però un suono inconfondibile che non mi scorderò mai: quello del flusso d’aria dei respiratori accesi dietro di me.

È un suono che indebolisce e terrorizza; suscita pensieri fra i più diversi e ti si aggrappa alla mente non mollandola più. 

Federico Feliziani
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Federico Feliziani
Autore e scrittore di prosa e poesie, blogger e consigliere comunale a Sasso Marconi, è da circa un decennio politicamente attivo e dedito alla causa contro le violazioni dei diritti umani. Considera la propria disabilità un’amica e compagna di vita con cui crescere e mantenere un dialogo costante.