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Bridgerton: tra successo e polemica, la rivalsa della leggerezza in tv

Tempo di lettura: 7 minuti

Una regina e un’alta borghesia di colore, Ariana Grande musicata con gli archetti per far ballare la quadriglia alle debuttanti e un nuovo sex symbol: Bridgerton è questo e tanto altro, e si è rivelato l’ennesimo colpo sicuro di Netflix.

La serie tv in costume targata Shonda Rhimes ha esordito sulla piattaforma il 25 dicembre scorso e nel giro di due settimane ha raggiunto i 63 milioni di visualizzazioni tra gli abbonati di tutto il mondo. In effetti, cosa c’è di meglio di un Gossip Girl (fatto bene) ambientato nell’800 per concludere un anno così difficile e ovviare alle desolanti festività natalizie?

È chiaro che Bridgerton sia la serie del momento: i social straripano di articoli e approfondimenti, le pagine ufficiali della trasmissione hanno fatto il boom di followers, e Regé-Jean Page (così si chiama il desideratissimo duca di Hastings) a breve dovrà uscire di casa con la scorta. Eppure, l’entusiasmo febbrile ha subito svelato l’analoga faccia della polemica: quella di Bridgerton è leggerezza o stupidità?

“All is fair in love and war…”

Ma di cosa parla Bridgerton? A cosa si deve tutto questo entusiasmo, sia in positivo che in negativo?

In soldoni, Bridgerton è il classico romanzo Harmony – riadattato alla perfezione per la tv contemporanea – in cui c’è una sensualissima e spintissima storia d’amore tra due aristocratici inglesi che prima si disprezzano, poi si alleano per tornaconti personali, e infine scoprono di desiderarsi terribilmente. E, come consuetudine, tutti i personaggi che ruotano intorno alla coppia divina cascano in intrighi e tradimenti.

Ciò è pane per i denti di Lady Whistledown, l’anonima gossippara di corte che mette nero su bianco tutte le magagne che l’aristocrazia tenta disperatamente di nascondere. Il giornaletto scandalistico pubblicato dalla Lady – che spaventa persino la regina – è il motore di tutte le scelte compiute dai personaggi puntata dopo puntata, per cercare di tenere a bada la lingua malevola della Whistledown e mantenere alta la propria reputazione.

A narrarci la storia, infatti, è proprio Lady Whistledown. L’inconfondibile voce di Julie Andrews accompagna le avventure di Daphne e Simon (interpretati da Phoebe Dynevor e Regé-Jean Page), di Eloise e Penelope (le brillanti Claudia Jessie e Nicola Coughlan), fino a diventare a un certo punto l’antagonista della serie.

Il tutto si svolge durante il periodo del debutto in società, quando le primogenite dell’alta borghesia gareggiano, tra balli e , per accaparrarsi il migliore marito sulla piazza. Non prima, però, di essersi presentate alla regina, la quale si arroga il diritto di individuare anche la più bella, la più graziosa e la più “idonea” tra le debuttanti.

La prescelta della regina è Daphne Bridgerton, la primogenita della famiglia che dà titolo alla serie. Consapevole della propria bellezza e della fila di pretendenti che la attendono, Daphne è pronta a ottenere ciò che vuole con le unghie e con i denti: va bene il matrimonio, ma a patto che sia per amore e non per convenienza.

Nel frattempo, in città arriva il misterioso Simon Basset, di recente titolato duca di Hastings in seguito alla morte del padre. Bellissimo, ricchissimo, arrogante e ben lontano dal volersi accasare, le madri dell’alta società iniziano ad inventarsene di ogni per accollargli una delle loro bambine.

In sintesi, Simon non vuole sposarsi e Daphne vuole farlo solo per amore: il resto è delirio puro, e non vi vogliamo rovinare la sorpresa – perché fidatevi, c’è da starsene incollati alla tv per almeno 48 ore.

Una polemica…

In un mondo in cui imperversa la dittatura del politically correct, produrre film o serie tv senza attori di colore o personaggi queer è diventato impensabile, una sorta di affronto. Ma quando ciò non accade, il pubblico deve ugualmente trovare qualcosa di cui lamentarsi (non è forse questo l’immenso potere che ci ha fornito la rete?).

Il caso di Bridgerton ne è un esempio lampante. Il classico “Non sono razzista, ma…” si è trasformato in “Sì, bella serie, ma…”, portando a galla un’innumerevole stirpe di esperti che in assenza, probabilmente, del Festival del Cinema di Venezia, hanno tenuto a sottolineare il carattere scadente della serie tv, deridendo la competenza in materia di chi invece ha ancora gli occhi a cuoricino post binge watching.

La prima critica è stata sferrata all’inaccuratezza storica. La serie è infatti ambientata nel periodo della Reggenza, ovvero, l’arco di tempo che va dall’1811 al 1820 e in cui il re Giorgio III fu dichiarato inabile a governare – nella serie tv viene figurato come affetto da Alzheimer – e toccò a suo figlio “reggere” il potere.

Risulta difficile pensare all’aristocrazia inglese del 1811 come dominata da una forte componente di colore. In Bridgerton, invece, Shonda Rhimes e Christian Van Dusen hanno perfettamente inserito una multietnicità inesistita nella realtà. Il reggente è invece la regina Carlotta (Golda Rosheuvel), anch’essa di colore. A partire da ciò ci si è scagliati contro l’inverosimiglianza dei costumi – stilisticamente inadeguati, a detta di improvvisi esperti di moda; e alla scelta della colonna sonora, che ha rivisitato in chiave classica numerosi pezzi pop, come Thank U, Next di Ariana Grande e Girls Like You dei Maroon 5. Terribile o geniale, a seconda dei punti di vista.

La seconda critica ha riguardato il cliché: donne il cui unico obiettivo è quello di accasarsi. Inutile a dirsi, le risposte taglienti di Daphne o il palese matriarcato di Lady Violet Bridgerton non sono bastate a sopperire al duro colpo inferto alle femministe più incallite, secondo quell’onda di pensiero per cui è impossibile trovare interessante, nel 2021, una trasposizione di tale sudditanza femminile. Contestualizzazione, questa sconosciuta.

E infine, la violenza fisica perpetrata ai danni del duca ha fatto talmente scandalo che nemmeno Lady Whistledown avrebbe potuto aspirarvi. Non vogliamo fare spoiler, ma se guarderete la serie potrete forse ragionare sul fatto che l’atto condannato, seppur scorretto e ingiusto, è ben lontano dall’essere la forma di stupro con la quale è stato criticato.

E queste sono solo alcune delle tante accuse volte allo show, con un certo disprezzo e un velo di superiorità. A sottolineare che, se avrà avuto così tanto successo, è perché ci sono troppi pochi stimatori di Breaking Bad e Lost (come se chi ama questi colossal non potesse permettersi un po’ di sano relax). O probabilmente perché Netflix sta producendo delle scelte talmente scadenti che Bridgerton, in fin dei conti, ha rappresentato l’alternativa migliore.

…decisamente sterile

Tuttavia, polemizzare sull’accuratezza di una serie che non ha alcuna pretesa storica porta a chiedersi se i servizi delle piattaforme streaming non abbiano prodotto una schiera di noiosissimi e altrettanto falsi amateurs del cinema d’autore. Bridgerton ha sicuramente l’ambientazione di un period drama, ma è chiaro che non mira ad esserlo unicamente. Gli si vuole conferire, invece, un taglio estremamente pop e contemporaneo: non c’è nessun tentativo di approcciare alla storia, quanto più a realizzare una sorta di mondo parallelo in cui il massimo dei problemi è capire chi diamine sia la Whistledown.

L’esistenza del duca di Hastings, storicamente “inadeguato”, non scalfisce il valore di Mr. Darcy. Semplicemente, i due personaggi, così come le due storie di cui sono protagonisti, non possono essere paragonati, poiché sono due cose completamente differenti, seppur all’apparenza non sembrerebbe.

Lungi, dunque, dal voler considerare Bridgerton un pilastro di cinematografia o della tv, è però evidente la cura che è stata posta ad ogni singolo dettaglio, dalla regia alla fotografia, dai costumi alle capacità recitative degli attori – spesso sconosciute a molti dei period drama del piccolo schermo, come dimostrano le innumerevoli produzioni spagnole in costume.

Inoltre, ci vuole un bel coraggio ad additare come stupida una serie tv che presenta uno sviluppo e una caratterizzazione dei personaggi superiore alla media di numerose serie di successo (la storia di una certa americana trapiantata a Parigi può essere un ottimo metro di paragone). Le figure femminili, in particolare, sono consapevoli delle loro capacità e del potere che possono esercitare nonostante la rigidità del patriarcato. Dalle giovani Daphne, Eloise e Penelope alle mature Lady Violet e Lady Danbury, tutte le donne dell’universo di Bridgerton volgono a loro favore ogni situazione. Consapevoli dei loro ruoli all’interno della società, puntano sì a mantenerli, ma a modo loro. Daphne rischia di passare da diamante di punta delle debuttanti a “reietta” senza nessun pretendente: se allo spettatore del 2021 può apparire assurdo e frivolo, contestualizzata alla borghesia dell’800 la scelta di Daphne, che punta a cercare l’amore prima di gettarsi tra le braccia di qualcuno per disperazione, è un atto di forza e di notevole sicurezza di sé.

Come lei, ogni singola fanciulla si batte per affermare la propria personalità e per mettere a tacere qualche signorotto troppo convinto della propria supremazia. Insomma, un altro mondo rispetto all’americanotta di Parigi (Emily in Paris), la cui storia è un’altra frivolezza targata Netflix, in cui però il cliché supera il concetto stesso di stereotipo e fa davvero rizzare i peli su tutto il corpo.

Come sosteneva Italo Calvino, leggerezza non equivale necessariamente a superficialità: e non ce ne volete se accostiamo, con un po’ d’audacia, un grande scrittore ad un prodotto di mero intrattenimento. La spensieratezza non ha mai ucciso nessuno, anzi. In fondo Bridgerton è tratto da un romanzo rosa, e Rhimes e Van Dusen sono riusciti anche fin troppo bene nel loro lavoro, appiattendo almeno una parte del trash e della spersonalizzazione dei personaggi caratteristici della letteratura Harmony.

Scandalo e delizia

Tra attacchi e sostenitori, Bridgerton sembra essere destinata ad avere innumerevoli stagioni, in perfetto stile Shondaland. La serie è infatti tratta dall’omonima saga di romanzi Harmony della scrittrice Julia Quinn, ognuno dedicato ad uno dei Bridgerton (tutti rigorosamente nominati in ordine alfabetico: Anthony, Benedict, Colin, Daphne, Eloise, Francesca, Gregory, Hyacinth…).

Mentre la prima stagione si concentra sulla storia di Daphne, ma non risparmia delle attenzioni agli altri fratelli, le future stagioni dovranno  dedicarsi alle storie di ogni singolo rampollo di casa Bridgerton. Per la gioia dei fan e il fegato marcio dei paladini della Nouvelle Vague.

Potremmo dire che Bridgerton sia un mix letale tra Elisa di Rivombrosa, Gossip Girl e un tentativo di Austeniana memoria? Potremmo, ma non lo faremo, perché sarebbe un’offesa a questa serie spassosa e pungente – a differenza delle sopracitate, terribilmente sterili – nonché un serio affronto a Miss Austen.

Dunque, se siete pronti a farvi trasportare da un po’ di sano trash, di quello che non offende il vostro quoziente intellettivo, correte a guardare Bridgerton. Se invece preferite restare nella vostra torre d’avorio, sappiate che su Netflix è disponibile Trotsky, una serie tv sul rivoluzionario bolscevico completamente in russo e sottotitolata unicamente in spagnolo, che ripercorre in flashback e flashforward l’esilio del politico tra Messico e Russia. Un pezzone. In quanti l’hanno vista? Chiedo agli esperti.

Sara Maietta
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Sara Maietta
Una vita ascrivibile all'ABCD: aspirante curatrice, bookalcoholic, catalizzatore di dissenso e dadaista senza speranze.