"Liber" di Catullo
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A chi morderai le labbra? – il dramma interiore nel Liber di Catullo

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“Odio e amo: forse mi chiedi per quale ragione io lo faccia. Non lo so, ma sento che in me avviene così e mi tormento”. 

Questo epigramma, forse il più famoso di Catullo, ha il merito di riuscire a compendiare le due forze che entrano in gioco nell’opera del poeta veronese: la passione legata indissolubilmente al dolore. Gaio Valerio Catullo fu il massimo esponente dei cosiddetti poetae novi, i letterati che si distaccavano dai temi legati al mos maiorum e all’epos per cantare argomenti più intimi e individuali, slegati cioè dalla vita pubblica.

Il “patto” d’amore

Il suo Liber consta di 116 componimenti, una parte dei quali dedicati a Lesbia, sotto il cui pseudonimo si cela Clodia, moglie libertina e lussuriosa del politico Quinto Cecilio Metello. È proprio questo particolare che ci porta alla prima contraddizione sentimentale di Catullo, ovvero l’assurda pretesa di fedeltà che il poeta richiede alla sua amante. Un patto d’amore che viene costantemente tradito da Lesbia, avvezza alle lascivie più impudenti negli ambienti politici e intellettuali dell’urbs aeterna. Catullo risulta totalmente incapace di gestire questo rapporto e i sentimenti che ne derivano, fino ad arrivare ad un’estremizzazione degli stessi. Il poeta passa così dal comporre carmi intrisi di un amore esasperato e irrefrenabile ad altri che trasbordano odio e frustrazione.

Catullo, precursore del Romanticismo?

I sentimenti del poeta portano dunque alla luce un concetto che ritornerà poi nei poeti e negli scrittori di gusto romantico, ovvero la drammatizzazione della sfera affettiva e le sue esiziali conseguenze. Lesbia, prototipo di femme fatale e musa capricciosa tanto passionale quanto cinica, non assurge però il ruolo di comprimaria nel Liber. L’amante è sì figura fondamentale dei componimenti, ma il protagonista risulta essere esclusivamente Catullo e la sua volontà di convincersi della realtà di un amore del quale in fondo all’animo dubita, ma che al contempo lo rende cieco.

Sarebbe altresì iniquo non ricoprire di pari dignità odio e amore, che il poeta veronese riesce straordinariamente a fondere.

“Viviamo, mia Lesbia, e amiamoci. […] Dammi mille baci, poi altri cento, poi ancora mille, e infine cento”

A questo carme si contrappongono però versi più pungenti, che esaltano il dramma interiore di Catullo.

“Sciagurata, guai a te! Che vita ti rimane? Chi ora amerai? Di chi si dirà che tu sia? A chi morderai le labbra?”

Amare e voler bene

Ciò che appare evidente è però l’assoluta incapacità di Catullo nell’uscire dal baratro delle incertezze e delle indecisioni, come un naufrago alla deriva che si lascia spingere dalla corrente. Il poeta ne è cosciente, e nel carme 75 ammette la sua condizione di condannato:

“A tal punto è ridotto il mio animo per colpa tua, mia Lesbia […] che ormai né potrebbe volerti bene, se pure diventassi la migliore delle donne, né smettere di amarti, se pure tu facessi le cose peggiori”

Attraverso i propri carmi Catullo ha incatenato la sua passione e i suoi tormenti all’eternità. Sentimenti mai banali che s’infiammano e si affievoliscono, senza mai spegnersi, in cui ognuno può facilmente ritrovarsi. D’altronde, è la stessa poesia a rappresentare una delle armi più potenti per fare i conti con la propria anima in fiamme.

 

Articolo a cura di:
Giuseppe De Filippis

 

 

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Giuseppe De Filippis
Studente di scienze politiche, vive a Napoli. L’attualità è l’amorevole moglie che lo fa sentire al sicuro, la letteratura la sua amante capricciosa. Inesorabilmente devoto alla poesia e all’orrido non necessariamente in quest’ordine. Ha un dattiloscritto nel cassetto. Ha da poco capito che il cassetto è se stesso.