Io e Annie
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Io e Annie di Woody Allen: siamo tutti Alvy Singer?

Tempo di lettura: 4 minuti

A livello cinematografico, l’anno 1977 viene solitamente abbinato alla fantascienza.

Il monolite “Guerre stellari” si staglia alto e abbacinante, non abbastanza però da offuscare “Incontri ravvicinati del terzo tipo”.

La commedia non rimane a guardare e Woody Allen decide di dire la sua con “Io e Annie”, che si porta a casa quattro Oscar: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale e miglior attrice protagonista.

La migliore di Allen

Difficile dire quale sia il miglior lavoro di Allen. Ogni suo titolo è un universo a sé, con piccoli e grandi tocchi.

Inoltre, non è un regista che vive di capolavori, ma della vita – sua e degli altri – che riversa in semplici, piccole (nelle intenzioni, ma non nei risultati) pellicole.

Ma se proprio occorre indicare un titolo, la scelta cade su “Io e Annie”.

Certo, una decisione “mainstream”, ma – purtroppo – spesso quel che diventa banale citare è davvero il meglio che c’è in circolazione.

Quante volte avete avuto la nausea nel sentire “‘I 400 colpi’ è il mio film preferito!”? Ma vorreste dire che non è inevitabilmente possibile?

Sbrighiamo subito la pratica, così poi andiamo avanti spediti: amanti di “Io e Annie” vs adoratori di “Manhattan” (1979).

Una faida ormai inestirpabile. Mi dispiace, ma io sto dalla parte di Alvy Singer.

“Manhattan” ha dalla sua un inizio da storia del cinema, un meraviglioso bianco e nero citazionista, una regia notevole (e figurati), ma non lo trovo supportato da una sceneggiatura che giustifichi tutta questa grandeur.

Se cercate una riflessione su di voi, sul vostro modo di amare e di approcciarvi al mondo, non c’è storia.

Per onestà intellettuale, però, consiglierei entrambi in abbinata a “Provaci ancora, Sam” (1972, regia di Herbert Ross ma tratto da una pièce teatrale di Allen), come ipotetica “trilogia della coppia”.

Il capolavoro che crea un precedente

Bene, torniamo a bomba.

Abbiamo tra le mani una commedia romantica (oggi forse si aggiungerebbe anche “indie”?) esplosiva e seminale.

Dopo “Io e Annie”, tutti i registi che vorranno imboccare questa strada dovranno obbligatoriamente passare da qui. Woody stesso, che stabilisce uno standard personale sul quale innesterà più o meno varianti.

È ancora oggi fresco, moderno, vitale, pieno di idee ed innovazioni a cui attingere. Il dialogo con lo spettatore ad inizio film, il piccolo cartone animato, i sottotitoli che dicono i veri pensieri dei protagonisti, il cattivissimo flashback della scuola, il sociologo McLuhan tirato fuori al momento buono e tanti altri eccetera.

Cinque minuti di pellicola contengono idee registiche e spunti di scrittura utilizzabili in almeno altri dieci film, e ovviamente le ruberie (omaggi?) non si contano.

Dal punto di vista della scrittura, naturalmente le battute brillanti e i dialoghi cinici non si contano (en passant, so che non è da seri omaggiare il doppiaggio, ma onore e gloria a Oreste Lionello), ma qui si va oltre.

Dopo una prima fase registica fatta di slapstick, gag pure e omaggi ai suoi miti – “Il dittatore dello stato libero di Bananas”, “Amore e guerra”, “Il dormiglione” -, qui si alza l’asticella.

L’osservazione della società, dei riti e delle fissazioni si fa sottilissima, arguta, affilata, e un sottofondo di tristezza e malinconia per la prima volta si infila tra un fotogramma e l’altro.

Vittima dei suoi stessi limiti

Ma il vero dito puntato è contro se stesso: il genio di Allen è così alto da compiere un’autoanalisi psicologica (puoi permetterti di mollare il tuo analista definitivamente) con occhio esterno e neutrale.

È vittima dei suoi stessi limiti, e lui lo sa. Emblematica è la decisione di ridurre la sua storia d’amore fallita in opera teatrale, modificando però l’epilogo in un lieto fine: un’occasione mancata per riflettere sui propri sbagli, anche perché – nella testa di Woody – non sono stati commessi. Triste storia dei geni: così grandi nell’arte, così deficitari nella vita, tanto da dover ricreare un mondo fittizio dove poter non affrontare l’esistenza ed evitare di elaborare le delusioni.

Indicativo anche il titolo originale: “Annie Hall”, ovvero il nome completo del personaggio interpretato da Diane Keaton. Logica avrebbe voluto che un film così Allen – centrico si fosse chiamato “Alvy Singer”, e invece no. Sarebbe stato – quasi in un gioco metacinematografico – un assecondare le dinamiche megalomani, distruttive, tossiche, incoerenti (vedere l’accostamento presente/flashback riguardo l’università) ed egocentriche che Woody stabilisce in una coppia.

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L’incomunicabilità e il cambiamento

E quando arriva il finale, è senza appello. Tra i due ormai c’è incomunicabilità, i loro piani della realtà sono diversi e distanti. Lei è andata avanti, priva dei tanti paletti mentali del suo ex fidanzato: probabilmente non è stata un’evoluzione, ma è avvenuto un cambio di stato, un movimento.

Non per lui: continua a parlare e a ragionare come ha sempre fatto, diventando agli occhi dello spettatore ormai pesante e patetico.

Non ha capito il motivo del loro distacco e, forse, non lo capirà mai.

Gli ultimi minuti, con il dialogo finale, la colonna sonora azzeccata e le immagini tratte dal loro rapporto (“Scene da un matrimonio”…) arrivano come un pugno nello stomaco a cui è difficile rimanere insensibili.

Malinconia, tristezza, nostalgia, allegria: il tutto si fonde in un sapore agrodolce.

Andata come è andata, ne è valsa la pena. La vita è bella.

Alvy Singer siamo tutti noi e non solo per le difficoltà amorose: per la sequenza in coda al cinema sospetto che Woody Allen mi abbia spiato.

Che onore, però.

Davide Soriente
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