DAD
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Società

DAD, ovvero la necessità non virtù dei nostri giorni

Tempo di lettura: 3 minuti

 

Gli inizi sono importanti.

Ricordo ancora piuttosto bene il mio primo giorno di università. Mi vedo di nuovo in piedi, sotto un cielo settembrino ancora troppo caldo per potersi definire autunnale, davanti ai due leoni che segnalavano l’ingresso di un ateneo maestoso, la prima università pubblica d’Europa. Proprio lì dentro, al primo piano, avrei seguito quella mattina di settembre la mia prima lezione di un corso universitario.

La prima, ben definita, sensazione a tornare subito alla mente è l’assoluto spaesamento, prodotto tutto sommato logico di un balzo temporale e spaziale che porta un diciottenne appena diplomato ad affacciarsi ad un altro mondo. Un mondo diverso: Napoli è certamente grande, ma per un ragazzino di provincia che ci era stato sì e no dieci volte, quasi mai da solo, quasi mai prendendo i mezzi pubblici, assumeva virtualmente le dimensioni di Hong Kong.

In quei primi giorni pieni di curiosità e interrogativi, di volti che si perdevano tra altri volti, a rendere meno inquietante il passaggio verso un’altra dimensione fu proprio l’immersione, un po’ volontaria un po’ imposta, nel contesto.

Un contesto meraviglioso come la Napoli storica, che rendeva possibile inframmezzare l’analisi delle prime (maledette) dispense di linguistica generale con un kebab dal Talebano, con una passeggiata ai Decumani, con una “gita fuori porta” sul mare. Ma anche le amicizie, le conoscenze, gli scambi di battute, il barista che decide di metterti la cremina nel caffé e improvvisare dibattiti.

In un’immortale scena di Palombella Rossa, Nanni Moretti fa dire a Michele che le parole sono importanti. Mi permetterei modestamente, e in tutt’altro contesto, di semicitarlo: sono importanti anche gli inizi. Chissà cosa sarebbe stato di quel diciottenne, senza quelle piccole salvezze, quei confronti, quell’inizio così deflagrante: prima la grandezza vagamente angosciante dell’ignoto, poi quelle rassicuranti pillole di normalità.

Fu bellissimo, naturalmente, anche immergersi nei corsi. Aumentava la mole di studio, ma proporzionalmente alla curiosità di confrontarsi con altezze inedite, con reali prese di coscienza proprie. Tutto ciò è stato un magnifico shock culturale per me come tanti altri, che siano stati avvolti dalla cornice mozzafiato di Napoli o altrove.

Poi sul 2020, e sull’università, come sulle altre cose, si è abbattuta una coltre di tenebra.

Sono d’accordo, in parte, con chi sostiene che la DAD abbia salvato l’università. La continuità didattica non è un bene negoziabile in alcun modo, così come forse a maggior ragione non può esserlo per gradi di istruzione inferiori. Anche i problemi tecnici, per quanto sicuramente catalogabili alla voce svantaggi, rappresentano uno scoglio tutto sommato (ma non sempre facilmente) superabile. Qualche addetto ai lavori sta pensando alla DAD anche come soluzione futuribile e permanente, a prescindere dagli sviluppi del Covid.

La DAD è certamente, in tempi di pandemia, una tecnologia non solo utile ma indispensabile perché necessaria, l’unica soluzione possibile. In un certo senso rende alcune specifiche situazioni più comode, non ha bisogno di spostamenti, è facilmente modellabile. Non ha bisogno di inizi, se non puramente di calendario, perché non ha neanche una fine: è come una linea retta. Il frutto delle contingenze che probabilmente ci serve ora.

Poi però penso alle matricole. In parte, anche agli altri studenti. Ma soprattutto alle matricole.

A quelle matricole che, come me, avrebbero potuto/dovuto trovarsi in piedi davanti a quel gigantesco portale, che sembra cullarti su e giù per otto secoli di storia. Oppure a quelle che sono state abbastanza fortunate (?) da beneficiare di una deroga per esserci lo stesso in quel primo giorno, nonostante la bufera, per poi ritrovarsi comunque catapultate nella frenesia dei turni, delle call e dei microfoni e videocamere controllati ossessivamente.

Immagino un me matricola nel 2021, e penso che sarebbe stato tutto diverso. Non so se avrei potuto conoscere la pizza fritta più buona di Napoli mentre studiavo Chomsky. Improbabile. Chissà se, senza poter fare quella conversazione al distributore del chiostro con un amico incontrato lì, mi sarebbe venuta voglia di partire per un Erasmus che mi ha cambiato la vita. Chissà se sarebbe successo su Teams, con lo stesso coefficiente di splendida casualità? Forse.

Ma probabilmente no, non sarebbe successo proprio nulla. Avrei semplicemente schiacciato il tasto rosso di fine call, chiuso e riposto il PC, e sarei passato a fare altro. Non avrei vissuto in quel microcosmo dall’odore di fritto e stampa, non avrei trovato rifugio in quelle camminate sul mare che servivano, per qualche istante, a non pensare a Segrepass e agli esami imminenti. O a pensarci meglio.

Penso che sarebbe stato tutto diverso. Neanche più malinconico: anonimo, come una linea retta che però non porta davvero da nessuna parte. Forse anche perchè sono per natura un po’ boomer tardivo e parecchio nostalgico, penso anche di essere stato fortunato.

E allora, soprattutto per un nostalgico un po’ boomer come me, sarà impossibile dimenticare.

Mattia Passariello

 

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