ThyssenKrupp
Editoriali

Rogo ThyssenKrupp: 12 anni dopo, la morte degli operai resta impunita

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Il 6 dicembre del 2007 un’esplosione nello stabilimento dell’acciaieria ThyssenKrupp a Torino causò la morte di sette operai. La responsabilità di quelle morti venne attribuita con sentenza definitiva nel 2016, per mancanza di adeguate misure di sicurezza, a sei dirigenti della società, quattro italiani e due tedeschi.

Ingiusta libertà

Questi ultimi, Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz, rispettivamente ex amministratore delegato ed ex consigliere della società, sono stati condannati a pene definitive di 9 anni e 8 mesi e 6 anni e 10 mesi. Quanti di questi anni hanno scontato? Neanche un giorno. Dopo la sentenza, i quattro italiani accusati- Daniele Moroni, Marco Pucci, Raffaele Salerno e Cosimo Cafueri-  si consegnarono alle autorità, mentre i due manager tedeschi fuggirono  in Germania per chiedere di scontare la pena in patria, ma ciò non è mai successo. Nel dicembre del 2018, i loro legali avevano presentato al tribunale tedesco una mozione per chiedere l’archiviazione delle sentenza, sostenendo una difformità procedurale tra il codice italiano e quello tedesco. Contestavano, quindi, l’applicabilità della condanna.

Dopo anni di totale negligenza della giustizia tedesca, che ha contribuito a coprire- in maniera più o meno volontaria- i due manager tedeschi, attaccandosi a cavilli burocratici, mancate traduzioni di atti e difformità processuali, quelle morti sono ancora senza giustizia. Ecco perché i famigliari delle vittime, insieme all’unico operaio sopravvissuto, Antonio Boccuzzi, si sono rivolti alla Corte di Strasburgo, accusando governo italiano e governo tedesco di aver violato i loro diritti, nello specifico il diritto al rispetto della vita calpestato dalla mancata incarcerazione dei due dirigenti tedeschi che, a tre anni dalla sentenza di condanna, continuano ad essere liberi.

Il rischio era noto ai manager

È un desiderio di giustizia, quello manifestato dalle famiglie delle vittime. All’epoca della sentenza, fu la stessa Cassazione a riconoscere la responsabilità dell’ex amministratore delegato della ThyssenKrupp e degli altri dirigenti. La linea 5 dello stabilimento, quella interessata dall’incendio, doveva essere, in effetti, messa in sicurezza ma l’ex AD pare abbia deciso di posticipare i lavori, accettando consapevolmente il rischio di eventuali incidenti. Si parla di milioni di euro destinati alla messa in sicurezza dell’intero stabilimento. Milioni di euro che avrebbero salvato la vita di quegli operai e che sono magicamente spariti.

La situazione di pericolo in cui versava lo stabilimento ThyssenKrupp, secondo gli inquirenti, sarebbe stata nota ai manager che hanno continuato a mantenere una condotta negligente, incurante dell’integrità fisica dei lavoratori. Le disposizioni antinfortunistiche fornite contravvenivano alle più basilari norme di sicurezza: lo stesso piano di sicurezza prevedeva, infatti, che fossero gli stessi lavoratori a fronteggiare gli inneschi di incendio con mezzi di spegnimento. Mezzi che si sono rivelati essere totalmente inadeguati. Secondo la testimonianza dell’unico sopravvissuto, gli estintori utilizzati dagli operai per tentare di domare l’incendio erano effettivamente scarichi.

Sono morti bianche?

Domani, a dodici anni esatti da quella tragedia, si riapre una cicatrice profonda, che fa ancor più male perché continua a restare impunita. La morte di Antonio Schiavone, Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo e Bruno Santino è il risultato di un sistema negligente, incurante dell’aspetto che dovrebbe essere quello fondamentale nel mondo del lavoro. Solo nella prima metà del 2019 in Italia in 600 sono morti sul posto di lavoro. Una media di tre al giorno. Le chiamano morti bianche, ma sono in realtà macchiate dallo sporco delle colpe, dell’inettitudine, dell’incoscienza, della violazione delle norme, dell’impossibilità di controllo efficace.

Margherita Sarno

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Margherita Sarno
Nata in una domenica di maggio, dedita agli studi linguistici trasformatisi poi in islamici, dopo la laurea diventa giornalista. Scrive per chi ama l’informazione pulita, per chi vuole ritrovarsi nelle parole che evocano sentimenti comuni e soprattutto per chi cerca la compagnia tra le righe.