Vittime di mafia
Società

Giornata per la memoria delle vittime di mafia: tre storie per ricordare

Tempo di lettura: 4 minuti

Quante sono le vittime di mafia? Provate a rispondere a questa domanda. Farlo non vi sarà difficile, vi bastano pochi secondi per avere la risposta.
Le vittime di mafia sono in totale 1023 e per saperlo basta una breve ricerca su Google. 
Altrettanti secondi ci mettete a rispondere se vi chiedo il nome di un mafioso. Tutti abbiamo letto i loro nomi sui giornali anche più di una volta e molti di voi avranno seguito anche le loro vicende giudiziarie.
Ma se io vi chiedo di dirmi il nome di una vittima di mafia (che non sia un giudice o un magistrato) riuscite a rispondere altrettanto velocemente?

Purtroppo non posso avere la risposta in diretta, ma se a me avessero fatto questa domanda prima di scrivere questo articolo probabilmente la risposta sarebbe stata no.
Questo perché non c’è tempo
È terribile dirlo, ma la mafia fa così tante vittime che non è materialmente possibile parlare di ciascuna di loro. Per dare un quadro completo ed efficace del quadro mafioso bisogna sintetizzare, dare dati non nomi; raccontare i fatti non le storie.
È questo ciò che è necessario fare, ma oggi è necessario fare una scelta diversa.

Oggi, 21 marzo, è la giornata per ricordare le vittime di mafia, e in questa occasione noi di Borderlain abbiamo scelto di raccontare tre storie.
Sono tre storie, tre donne, tre vite fra loro diverse ma unite dallo stesso destino: sono tutte tre vittime di mafia.
Domani dovremo tornare a parlare di fatti a dare dati, numeri; ma oggi fermiamoci. Oggi fermiamoci e ricordiamo. 

 La “straniera”

Si chiamava Rossella Casini e studiava psicologia a Firenze; si oppose per amore alla mafia, e l’amore fu la sua condanna a morte. 
Nel 1977 Rossella, che all’epoca aveva appena 21 anni, conosce Francesco Frisina uno studente di economia originario di Palmi. È amore. I due si mettono insieme, ricevendo il benestare delle rispettive famiglie, ma la favola dura poco.

In quegli stessi anni infatti a Palmi scoppia la faida tra i Gallico e i Parrello-Condello: è guerra aperta tra le famiglie. Una guerra che non lascia fuori nessuno. Una guerra che non risparmia nessuno.
Nel 1979 il padre di Francesco viene ucciso e poco dopo anche il figlio si prende una pallottola in  testa, riuscendo però a sopravvivere.
Saputa la notizia Rossella si precipita in Calabria. Lei, fiorentina, non sa nulla di cosche o faide; una cosa però la sa: vuole salvare Francesco.

Rossella riesce a farlo trasferire in una clinica privata a Firenze e lo convince a denunciare. È una bomba. Il meccanismo mafioso per un attimo si inceppa ma non perde colpi: Francesco è convinto a ritrattare.  È l’inizio della fine per Rossella. Nel mirino degli uomini d’onore, cerca in tutti modi di salvare il fidanzato e sé stessa fino a che non viene costretta, dai parenti di Francesco, a ritrattare.
La mattina del 22 febbraio del 1981 Rossella decide di tornare a casa. “Sto per partire” dice al padre al telefono, ma Rossella non partirà mai.  

La verità la si saprà molto dopo. La si saprà circa tredici anni dopo quando un pentito sceglie di parlare. 
Rossella venne uccisa dai Frisina. Fu ordinato di far fuori “la straniera”.  E la “straniera” fu fatta a pezzi e poi gettata mare. 
I suoi assassini non andranno mai in carcere: insufficienza di prove 

 “Gli anarchici della baracca”

Anarchica e ribelle Annalise Borth nasce in Germania nel 1952. 
Giovanissima scappa di casa e dopo varie peripezie giunge in Italia. Qui vive per un periodo a Roma avvicinandosi ai gruppi anarchici del tempo ma intorno agli anni ‘70 si trasferisce a Reggio Calabria con il marito Gianni Arico. 
 

Come Rossella anche Annalise è cresciuta lontano dall’ambiente mafioso ma ciò non la ferma di certo. Con il marito e alcuni amici fonda infatti un gruppo di “controinformazione” e azione politica. Loro sono “gli anarchici della baracca”.  
In particolare indagano su due fatti avvenuti nell’estate del 1970: il deragliamento del treno “Freccia sud” a Gioia Tauro e la rivolta di Reggio Calabria. Sospettano l’implicazione non solo dei neofascisti ma anche della ‘ndrangheta. Lo sospettano e vanno fino in fondo. Fino a quando non trovano qualcosa di pesante. È la fine di Annalise dei suoi amici.

Il 27 settembre mentre e con loro in viaggio per Roma rimane vittima di un sospetto incidente stradale che non le lascia scampo. Con lei muoiono anche i suoi compagni. 
Quel giorno stavano trasportando dei documenti, un faldone con le loro ricerche sul coinvolgimento della ‘ndrangheta.
Quelle carte non furono mai più trovate.
Il caso fu archiviato come incidente stradale. 

La strage di Pizzolungo

È il due aprile del 1985, Barbara Rizzo ha 34 anni e sta accompagnando i suoi due gemelli di sei anni a scuola. Ciò che avviene dopo è figlio del fato, o forse è la dimostrazione che la mafia non lascia scampo a nessuno.
Alle ore 8:35 del giorno due aprile del 1985 sulla statale di Pizzolungo una carica di Tritolo esplode. È un attentato. Un attentato che aveva come obiettivo il sostituto procuratore Carlo Palermo (a lungo aveva indagato sui traffici di droga e armi gestiti dalla mafia) che si salva. 
Si salva perché gli fa da scudo la macchina di Barbara che invece salta in aria.
Barbara muore, con lei perdono la vita anche i suoi figli. 
I loro corpi sono irriconoscibili anche per il marito di Barbara che li trova dilaniati sull’asfalto.
Su quella strada ora c’è una scritta:  

«Rassegnati alla morte non all’ingiustizia le vittime del 2-4-1985 attendono il riscatto dei siciliani dal servaggio della mafia. Barbara, Giuseppe e Salvatore Asta» 

Miriam Ballerini
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