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Società

Morti civili in guerra: ad un secolo dalla convenzione dell’Aia ancora realtà

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Quando si parla di guerra ci sembra sempre di parlare di una cosa estranea a noi.
Le guerre sono quelle sui libri storia che studiavamo giusto per passare l’interrogazione, una cosa che non ci riguarda, che non esiste. 
Eppure per qualcuno non è così.
Per qualcuno la guerra è la normalità, ciò che vive ogni giorno e da cui non può scappare. 
Per qualcuno la guerra non è solo una pagina su un libro di storia.
I conflitti infatti esistono. 
Esistono ancora

Una realtà ancora presente

Le guerre non sono finite con la seconda guerra mondiale e dilaniano quotidianamente interi stati.
Ad oggi sono circa 70 gli stati interessati da conflitti che giornalmente mietono vittime su vittime.
Sono migliaia, e anche di più, coloro che ogni giorno subiscono gli orrori di conflitti molto spesso (anzi sempre) voluti dall’alto, dai giochi di potere di governi per cui la vita umana vale poco o nulla. 

Governi che ben rappresentano la sconfitta di quelle speranze di pace che accompagnarono la fine della seconda guerra mondiale ma che trovano la loro origine ben prima, addirittura dalla fine del XVII secolo.

I principi traditi

Fu nel 1899 che i rappresentanti di ventisei paesi si trovarono a l’Aia (da qui il nome convenzione di Aia) per discutere i principi di diritto bellico. Convenzione che entrò ufficialmente in vigore il quattro settembre di un anno dopo. 
Il fine ultimo era “Il mantenimento della pace generale e la possibile riduzione degli armamenti in eccesso” e soprattutto si affermò un principio importante: i civili vanno risparmiati. 

I civili non scelgono la guerra, la subiscono. 
Chi vive in un paese in guerra non può far altro che cercare in ogni modo di salvarsi vivendo sempre nella paura di veder distrutto ciò che ha e questo sembrava essere chiaro già più di un secolo fa. Le cose però sono andate in maniera diversa. 
Il novecento non ha risparmiato i civili. 

Non l’hanno fatto i nazisti e fascisti mandando a morire milioni di persone nei campi di sterminio. Non l’hanno fatto gli Italiani in Etiopia dove l’uso di gas chimici (arma il cui uso la convenzione aveva espressamente vietato) aveva lo scopo di terrorizzare la popolazione abissina.
Infine non l’hanno fatto neppure gli stati implicati nella prima guerra mondiale che ha provocato circa sette milioni di morti civili.
Il novecento fu un bagno di sangue innocente e i settanta conflitti tutt’ora presenti continuano ancora mietere vittime tra la popolazione.  

Le morti civili: una triste realtà

I civili muoiono. Muoiono ad esempio nello Yemen
Qui il conflitto (che vede impegnata anche l’America di Trump) ha visto morire l’anno scorso circa venti mila civili tra cui bambini di cui ci ricordiamo solo quando il conflitto minaccia le nostre risorse petrolifere. 

Muoiono per diverse ragioni: pessime condizioni sanitarie, mancanza di cibo ma soprattutto muoiono per gli attacchi aerei della coalizione sunnita (di cui fa parte l’America) che sfrutta le armi che l’Europa gli vende.

Intanto in Libia a luglio dell’anno scorso la guerra aveva fatto 1.093 morti. Di questi 106 erano civili a cui si aggiungono coloro che sono rimasti feriti (circa 294 civili).

In Siria invece la crisi iniziata nel 2011 ha portato in 6 anni (gli ultimi dati diffusi sono del 2016) a 430 mila morti di cui un terzo civili. La sola città di Aleppo (la più colpita) conta più di trentadue mila morti.  

Le nostre responsabilità

Davanti a queste morti non c’è una giustificazione. 
L’Europa e l’America non possono dichiararsi estranei da conflitti responsabili di migliaia di morti civili nel loro silenzio e nella loro complicità.
Le armi che a questi stati vendiamo, i porti che chiudiamo a chi cerca di scappare da quelle zone sono parte della nostra responsabilità. 
Prendiamo atto del fatto che queste morti ci rimarranno sulla coscienza così come ci sono rimasti i morti delle due guerre mondiali. 
Perché se il novecento ha tradito quei principi di pace sotto il cui segno era iniziato, lo sta facendo anche il nostro secolo. 

Miriam Ballerini
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