Ethan Bonali
Interviste

La rivoluzione parte anche dal linguaggio: intervista a Ethan Bonali

Tempo di lettura: 7 minuti

N.B. Questa intervista è stata fatta in via telematica, nel rispetto del decreto-legge del 23 febbraio 2020, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 e del suo allargamento all’intero territorio nazionale del 9 marzo 2020.

Sono tanti gli studi che analizzano la lingua italiana e parlano di linguaggio sessista. La discriminazione, infatti, avviene anche tramite l’uso del linguaggio. È uno strumento comunicativo potente e da sempre rappresenta e privilegia chi ha più potere.

Oggi si sente parlare di linguaggio neutro e si vede sempre di più l’utilizzo dell’asterisco, ad esempio. Si sta cercando un tipo di linguaggio che rispetti tutte le persone.

Ethan Bonali è un ingegnere e un attivista. Cerca di ottenere diritti per la comunità LGBTQ+, con particolare attenzione alle persone trans, sex worker, non binary e minori trans e gender non conforming. È uno scrittore per alcuni siti e in autunno uscirà un suo libro. Ethan è anche una persona trans non binaria, significa che non si identifica nel genere che gli è stato assegnato alla nascita e oltre a questo non riconosce che vi siano solo due generi, ovvero donna e uomo.

Abbiamo quindi deciso di intervistarlo e parlare con lui di questo nuovo linguaggio che si sta sviluppando.

Ciao Ethan, grazie per aver accettato di parlare con noi. Ci spiegheresti che cos’è il linguaggio neutro?

«Tendenzialmente non userei il termine linguaggio neutro, perché si porta dietro un’altra grande incomprensione: quella del considerare le persone non binary come genere neutro, cosa che non è. Nel senso che tra uomo e donna non c’è il nulla. C’è tutta una serie di sfumature che non sono per nulla neutre.

Per questo linguaggio neutro non lo userei, anche perché ha un’accezione negativa. Il linguaggio neutro è un linguaggio che ha invisibilizzato le donne per tantissimi anni. Quindi porta anche politicamente, ideologicamente, culturalmente a degli scontri non voluti, per esempio, con il movimento femminista.

Quindi più che linguaggio neutro io parlerei di un linguaggio ampio. Non mi piace nemmeno la parola inclusivo, ma volendo possiamo usare anche linguaggio inclusivo.

Ovvero un linguaggio che riesca a descrivere in maniera precisa e ricca l’espressione delle persone, l’esistenza delle persone. Quindi io parlerei di un linguaggio che diventa più ampio più che neutro.»

Sappiamo che la lingua italiana è binaria. Ad esempio, nella lingua inglese questo problema non c’è. Per questo, in Italia, si ricorre a varie soluzioni. Quali sono queste soluzioni? E i pro e contro?

«La situazione è complessa. Io intanto dividerei tra lingua scritta e lingua parlata. Nella lingua scritta si è sviluppato l’uso dell’asterisco oppure la chiocciola. E intanto questo è un segno grafico. Sta lì a simboleggiare il fatto che vi è in corso la costruzione di un linguaggio, quindi quella è un’espressione scritta di una realtà.

La lingua parlata ci mette un attimo in difficoltà, ma sviluppa anche degli aspetti di creatività. Ci allena un attimo a evitare il linguaggio sessuato o genderizzato. Si usa il termine persona, specialmente appunto se si parla di altre persone.

Nelle assemblee femministe e trans-femministe si usa la U, per esempio, che è l’unica vocale lasciata libera un po’ dal linguaggio italiano e quindi è una possibilità. Un’altra possibilità è quella di intervallare il maschile e il femminile. Altro e ultimo filone è la possibilità di tagliare la vocale.

Il problema poi è far passare queste soluzioni nei circuiti ufficiali. Per esempio nei moduli, nelle mail ufficiali ecc. Dove alla fine io invito sempre ad utilizzarlo proprio perché è una forma di denuncia del fatto che ci sono persone che non hanno una lingua che le possa descrivere.»

Perché è importante utilizzare un linguaggio ampio?

«Ci sono tantissimi aspetti che si sovrappongono e inizio col dirti una cosa: spesso quando si richiede di utilizzare questo linguaggio la richiesta viene presa come o un capriccio oppure come una costrizione al quale si vuole sottoporre l’interlocutore.

Questo secondo me ci dovrebbe portare un attimo a riflettere sugli arroccamenti ai quali le persone sono abituate. Perché non riflettono sulla condizione di disagio, di oppressione – non oppressione. Quindi sui propri privilegi o no non ci si riflette mai.

È importante utilizzare questo linguaggio, perché intanto cerchiamo di essere delle persone decenti. Quindi cerchiamo di ricordarci di rispettare la realtà degli altri e di non vivere le richieste delle altre persone come degli attentati alla nostra libertà o dei capricci.

Utilizzare questo linguaggio significa rendere visibili queste persone, riconoscere che il genere non è binario. Iniziare una piccola rivoluzione che parte dal linguaggio. Lo strumento italiano usato consciamente in maniera binaria è uno strumento oppressivo.

È anche uno strumento repressivo, ovvero inconscio, perché porta le persone a usare quelle parole e a ragionare in un determinato modo e quindi a reprimersi inconsciamente da sole.

Il linguaggio ci permette di strutturare un pensiero. Se usiamo sempre lo stesso linguaggio, useremo sempre le stesse categorie di pensiero e non ci accorgeremo mai veramente degli altri, delle cose che cambiano e che devono cambiare.»

A proposito di chi non si riconosce in questa binarietà, cos’è il genere non binario?

«Io farei differenza tra genere non binario e identità non binaria. Quando parlo di genere non binario io intendo un discorso sul genere come lo è quello binario. Ovvero su donna e uomo abbiamo sviluppato tutta una narrazione comune e collettiva.

Il genere non binario sta sviluppando una narrazione collettiva che si sta incuneando ma anche armonizzando con il discorso sul genere uomo e donna. Riconosci che non ci sono due punti quando si parla di genere, ma che vi è tutta una realtà tra questi due, intorno a questi due. Quindi un ampliamento del discorso sul genere.

Altra cosa è l’identità non binaria. Ovvero l’identità non binaria è propria di una persona che non si riconosce in quel discorso di genere uomo – donna. La profondità di quello che si sente, di quello che si è creato come personalità a tutto tondo non ha un riscontro negli stereotipi, nella narrazione che è quella uomo – donna.

Semplificando ancora di più non binario significa, per me, che io non sono uomo o donna, sono altro.

Approfitto per dire che non binario è un termine ombrello sotto il quale ci sono tantissimi termini che servono per descrivere queste sfumature. E servono per iniziare a comunicare all’esterno questa realtà, perché in un qualche modo va raccontata.»

Nella tua personale esperienza, quali sono gli ostacoli maggiori che hai riscontrato in chi è resistente all’uso di un linguaggio ampio?

«Ci sono vari tipi di atteggiamenti che sono dettati da tantissimi fattori. Ci sono i puristi della lingua che sono quelli anche che dicono che il maschile plurale include tutti, quando ormai è risaputo che in verità è uno strumento che sottintende che il maschile sia il genere di default quando si vuole parlare di tutti, appunto.

Come chi parla di uomo e non di umanità. Sono piccole sfumature che probabilmente notano solo i maniaci della lingua e i maniaci attivisti, però sono quegli strumenti di repressione inconsci di cui non ci rendiamo nemmeno conto.

Un altro ambiente dove c’è resistenza sono alcuni ambienti femministi, e parlo assolutamente di alcuni, in cui la giusta opposizione al  linguaggio neutro porta anche a fare molta resistenza all’asterisco, alla u o qualunque tipo di meccanismo che dia visibilità alle persone non binarie. Proprio perché lo interpretano come volontà di cancellazione del genere femminile.

Secondo me però la più grande resistenza che tu trovi quando richiedi di utilizzare un linguaggio inclusivo è la volontà delle persone di avere del potere e la volontà di difendere la propria identità che loro hanno. E questo ci fa capire quanto è fragile la costruzione del genere.

Spenderei un attimo di riflessione sul fatto che ultimamente si è sviluppato, insieme al suprematismo, quel desiderio di negare qualcosa a un’altra persona. E se il linguaggio mi dà l’opportunità e il potere di farlo, io lo faccio e lo rivendico come difesa di me stesso.»

Quindi, come si può rispondere a chi è resistente nei confronti di questo nuovo linguaggio?

Prima di rispondere mi invia questa citazione:

“… È come se questo muro di pietra significasse veramente l’appagamento, come se contenesse effettivamente in sé una parola di pace unicamente perché esso equivale al due più due fa quattro”

– Memorie dal sottosuolo, F. Dostoevskij

«La citazione che ti ho messo è una frase che mi ha molto colpito di quell’opera di Dostoevskij, perché si ragionava in quel brano di come l’uomo sceglierà sempre di essere vicino a quel muro nonostante sia un ostacolo, sia una prigione proprio perché gli da sicurezza.

Quindi che cosa rispondo a queste persone… di realizzare che abbiamo passato l’epoca del due più due, delle sicurezze.

È ciclico nella storia dell’umanità che vi siano dei periodi in cui pensiamo di sapere tutto e quindi pensiamo anche con certezza che i generi sono due e invece momenti come questo in cui non ne siamo più talmente certi. Quindi la prima reazione è il rifiuto.

Io a queste persone direi di riflettere sul perché stanno rifiutando una forma di riconoscimento di un’altra persona. Pensano che non sia una persona in grado di intendere e di volere, pensano che sia una minaccia? E questi meccanismi scattano perché? Che cosa stanno difendendo? Che cosa stanno ottenendo con questo tipo di rifiuto? Che cosa potrebbero ottenere se invece loro questo rifiuto lo trasformano nell’accettare una realtà molto più ampia?

Quindi non posso dire a queste persone “diventate delle persone decenti”, perché in teoria dovremmo esserlo. Non so neanche se scendere nella teoria e nell’argomentazione sia utile. Penso sia molto molto molto più utile fare delle domande su perché e per come. Perché l’unico modo di superare delle rigidità, da entrambe le parti, è instaurare un dialogo.

Quindi io penso che la mia risposta a queste persone sia riflettete sul perché di questo rifiuto. Perché non siamo mai appartenuti ad una cultura che, dopotutto, le regole le ha tanto rispettate. Quindi non possiamo attaccarci all’essere puristi o alla difesa della regola tout court.

Ci siamo educati a vedere nell’altro un pericolo e abbiamo questa idea che le risorse, anche quelle linguistiche, siano scarse e abbiamo paura che il linguaggio dell’altro invisibilizzi noi

Pensi che prima o poi, in futuro, si arriverà ad utilizzare un linguaggio ampio in ogni ambito della vita?

«Sì, ne ho praticamente la certezza. Evidentemente con qualche ritardo rispetto ad altre nazioni. Ti faccio un esempio: in Canada, un bambino di 4 anni ha chiesto a una persona che conosco “Che pronome vuoi che io usi?”. Quindi se un bambino di 4 anni ce la fa, ce la possiamo fare anche noi.

Evidentemente siamo un Paese che presenta delle peculiarità per le quali è ancora più dura, perché siamo un Paese che culturalmente si sta incartando.

Un Paese in cui sono acute le tensioni sociali e di genere è difficile che in questo momento e a breve sia disposto a. Però attraverso laboratori nelle scuole che stanno già avvenendo, nonostante le dieci mila difficoltà. Attraverso la vita di tutti i giorni, sia nel pubblico e nel privato. Attraverso la divulgazione da parte degli attivisti, delle riviste, attraverso i romanzi che usciranno… Sarà un lavoro lungo, ma ce la possiamo fare.

Uno dei più grandi ostacoli non sarà l’uso di tutti i giorni, ma sarà cambiare le leggi. Perché tutti i codici italiani sono molto genderizzati e ci sono delle leggi che riguardano proprio il genere femminile e maschile. Quindi questo sarà un grossissimo scoglio.

La prima cosa sicuramente intanto è cambiare i moduli ufficiali, fornendo magari altri tipi di scelta oltre a quelle binarie, questo già sarebbe qualcosa. Questo sarà un lavoro monumentale da fare, perché il nostro sistema giuridico non è semplice da cambiare come potrebbe essere quello Americano o Inglese. Il nostro è un codice scritto e tutte le parole hanno un significato fortissimo e assolutamente univoco.

Per il resto, io ne ho la certezza, perché tra i giovani c’è un’esplosione di persone non binary. Noi non abbiamo una ricerca, quindi ci basiamo su quelle per ora estere, per cui i ragazzi sui 20 anni si riconoscono per più del 30% come persone non binary. Quindi queste persone parleranno in qualche modo e faranno parlare gli altri in qualche modo.»

Intervista a cura di:
Sara Najjar

 

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3 Comments

    1. Ciao Paolo, certo il rispetto deve esserci sempre. E’ alla base di ogni rapporto, ma ci tengo a sottolineare che non ci sono solo uomini e donne. Ci sono anche quelle persone che non si riconosco nella binarietà uomo-donna, come appunto spiegato e specificato nell’intervista. Anche loro vanno rispettat*, come del resto ogni persona.

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Sara Najjar
Nata nel 1996 a Bologna e cresciuta nell'hinterland modenese, è ritornata nella sua città natale da pendolare dove ha studiato prima Educatore sociale e culturale e poi Pedagogia. Si circonda di gatti fin da quando è piccola e, tra le tante cose, si ciba di musica (principalmente indie), serie tv, libri e scrittura.