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Società

Noi, figli del consumismo, in quarantena

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I centri commerciali chiusi, gli aperitivi vietati, le uscite al ristorante e in discoteca un lontano ricordo. La società dei consumi chiude i battenti per la quarantena, e a noi, figli del consumismo, sembra non rimanere nulla. Sì, è vero, internet può essere una buona alternativa, ma anche lo shopping online è stato fortemente sconsigliato (meglio se per articoli strettamente necessari): i corrieri rivendicano “pensate anche a noi!” e non hanno tutti i torti. Insomma, per qualche mese l’italiano medio dovrà fare a meno delle spese, dei viaggi, dei vestiti nuovi, etc. Un vero e proprio tuffo nel passato. Risulta spontaneo chiedersi se i nonni avevano ragione quando ci dicevano “si stava meglio quando si stava peggio”.

La società dei consumi…

Sicuramente sappiamo tutti che cos’è il consumismo. Ci siamo cresciuti a fianco. Ciò che desideravamo ottenevamo: la casa delle barbie, la macchinina telecomandata, il cagnolino (terrificante) che scodinzolava come quello  vero. La TV ci ha tenuti incollati ore e ore, diventando il nostro più fedele amico, e inconsapevolmente si approfittava della nostra emotività rendendoci schiavi e veneratori dell’oggetto. Chi aveva quello più bello diventava un esempio per gli altri. Vi sarà capitato di vedere un vostro amico con un paio di scarpe nuovo e di andare a casa e estenuare i vostri genitori fino a quando non ottenevate lo stesso modello, possibilmente dello stesso colore. Insomma, fin da bambini trovavamo il modo di omologarci. Non facciamocene una colpa, del resto questa società dei consumi non è nata con noi nuove generazioni ma ha radici ben più profonde.

… o la società dei capelloni?

Pasolini, uno fra i tanti, la vide sorgere inaspettatamente e la denunciò in più sedi, sviscerandola in tutti i suoi aspetti. Resta emblematico l’articolo sul Corriere della Sera, il più famoso degli Scritti Corsari, “Contro i capelli lunghi” in cui l’autore denuncia la cosiddetta società dei capelloni che noi meglio conosciamo come “figli dei fiori”, cioè quella generazione nata con l’obiettivo di opporsi a tutto ciò che aveva anche lontanamente a che fare con i loro padri. Ma Pasolini ci mostra come in realtà gli hippy sono caduti nella trappola della stessa società che criticavano, non avendo un chiaro messaggio da trasmettere ma solo un’immagine da vendere: quella dei capelli lunghi.

“Ora così i capelli lunghi dicono, nel loro inarticolato e ossesso linguaggio di segni non verbali, nella loro teppistica iconicità, le «cose» della televisione o delle réclames dei prodotti, dove è ormai assolutamente inconcepibile prevedere un giovane che non abbia i capelli lunghi: fatto che, oggi, sarebbe scandaloso per il potere.”

E purtroppo anche noi siamo caduti nella stessa trappola. Anche in piena crisi pandemica troviamo il modo di omologarci. Pensate alle mascherine: quante volte ci hanno ripetuto che non servono a niente, a meno che non rientriamo nelle seguenti categorie: a) medici/infermieri b) malati c) lavoriamo in luoghi pubblici (quei pochi che sono ancora aperti).  Se l’unica cosa che facciamo (e dobbiamo fare) è stare a casa, allora la mascherina non ci serve. Eppure la vogliamo, ci dà quel senso di protezione in più. La dobbiamo avere. Ma ragionando così non stiamo forse assecondando ancora una volta il nostro ossessivo bisogno di consumare?

Il bicchiere mezzo pieno

Molti altri sono gli effetti della sospensione del consumismo. In primis un sentimento di prigionia: senza consumare non siamo veramente noi, ci hanno tolto ogni tipo di libertà. È come se a un bambino venisse tolto il suo gioco preferito: lo cerca, invano, e non si dà pace, non riesce a dare un senso alle sue giornate.

Ma pensiamo un attimo a cosa di positivo possiamo trarre dall’esperienza drammatica che stiamo vivendo (una cosa che sicuramente abbiamo imparato ai tempi del Coronavirus è che è bene iniziare a guardare il bicchiere mezzo pieno). Come quando si cerca di uscire da una dipendenza, smettere (momentaneamente) di consumare può aprire gli occhi e far riflettere su quali sono i nostri fini.

Il consumismo da cosa nasce? Dalla globalizzazione: i mercati che si aprono e si scambiano di tutto, dalle merci alla cultura (occidentalizzata). E questo che cosa porta? Omologazione. Ma è questo che vogliamo? L’economia ha uno scopo ben preciso: il profitto. Vendere un prodotto al maggior numero di acquirenti è ciò a cui tutte le aziende puntano, quindi più persone hanno l’oggetto che l’azienda vende, meglio vanno gli affari. Ma se tutti hanno gli stessi identici oggetti, gli stessi vestiti, gli stessi arredamenti, che fine fa la differenziazione?

È durante la quarantena che viene fuori chi siamo realmente: passiamo le giornate in pigiama, tutto quello che prima ritenevamo indispensabile (l’oggetto) si annulla. E cosa rimane? Solamente noi. Perciò fermiamoci a riflettere: ci piace quello che vediamo allo specchio? I nostri fini sono gli stessi del consumismo o puntiamo ad essere diversi, a far vedere chi siamo realmente? La risposta la lascio a voi.

Chiara Cogliati
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Chiara Cogliati
Da un anno vive a Venezia dove studia, ogni tanto si rintana leggendo e ogni tanto pensando, anzi spesso, serve per fare tutto il resto. Le piace ascoltare, le riesce meglio che parlare, ma per fortuna sa anche scrivere, un pochino, e allora quello che vorrebbe dire a parole lo scrive, così si diverte.