Ho la dislessia. Anzi per essere più precisi ho la disgrafia e la disortografia, ma non l’ho sempre saputo.
D’altra parte quando nasci non hai addosso un cartellino con su scritto “difettata”, quello arriva dopo. Arriva, ed è chi ti sta intorno che te lo “regala”.
Ho la dislessia e l’ho scoperto quando avevo undici anni. Non si capiva il perché di quegli errori che macchiavano i miei temi e il perché di una grafia che avrebbe fatto invidia anche al miglior medico. Non si capiva e io per prima non capivo (né in realtà pensavo ci fosse qualcosa da capire).
In fondo io non mi sentivo diversa dagli altri, avevo undici anni e per me dislessia poteva essere anche il nome del cane della maestra (francamente ad oggi mi auguro di no per il cane).
E poi iniziarono le visite.
In quei giorni c’era il sole. Era estate, avevo finito le elementari e avrei iniziato le medie. Era estate e ricordo ancora la sensazione di incertezza. Non comprendevo il perché di quei test, di quegli esami. Io stavo bene. Io non mi sentivo diversa.
“La bambina si dimostra collaborativa e disposta a parlare della sua condizione”. Questo è ciò che mi ricordo essere stato scritto sulla mia diagnosi. Ancora oggi questa frase mi è rimasta impresa. L’unica frase che io ricordi di un documento di circa undici pagine. Vorrei poter dare il merito di ciò ad una mente particolarmente acuta ed in grado di cogliere i particolari più irrilevanti, ma la verità è un’altra.
La verità e che io non mi ricordo neanche cosa ho mangiato a cena e quella frase mi è rimasta in mente perché perfettamente in grado di descrivere come io mi sentissi all’epoca.
Io mi sentivo come mi ero sempre sentita: una bambina. Non vedevo la mia diagnosi come qualcosa tale da potermi definire, catalogare. La mia dislessia non mi definiva.
Io non stavo parlando di lei. Io stavo parlando di me. Se poi potevamo dare un nome ad una mia difficoltà tanto meglio, ma io non ero lei.
Potessi tornare indietro probabilmente abbraccerei quella bambina e le direi all’orecchio che ha ragione e che sono orgogliosa di lei. Lei però non può dire lo stesso.
Io quella bambina l’ho delusa.
Non è avvenuto tutto all’improvviso. Nessuno mi ha fatto il lavaggio del cervello nel sonno né ho preso una botta in testa. Ma mentre crescevo, mentre andavo a scuola, iniziavo sempre di più a sentire la differenza tra me e gli altri.
L’ho sentita in prima media quando durante l’ora di matematica la mia professoressa di italiano mi ha chiesto di uscire un attimo per aiutarla a “decifrare” il mio tema. L’ho sentita quando mi sono resa conto che nell’ora di educazione tecnica per me era impossibile tracciare una linea senza “scalfire” il foglio. E l’ho sentita chiaramente nelle risatine di due delle mie compagne quando in terza media la professoressa di inglese correggendo la mia verifica mi ha fatto notare un errore di ortografia.
Ho sentito che ero diversa. E col tempo ho confuso questa differenza con me stessa. Io non ero più soltanto me. Ero me più la dislessia: pacchetto all-inclusive, contrattato senza possibilità di recessione.
Ho lasciato che la dislessia fosse un ostacolo insormontabile.
La dislessia era il limite per cui secondo i miei professori non potevo fare il liceo classico: non ce l’avrei mai fatta. La bambina di tre anni prima avrebbe fatto di testa sua. Io mi sono iscritta al liceo delle scienze umane.
Col passare del tempo la situazione non è migliorata. Ho semplicemente preferito ignorarla. Durante gli anni del liceo ho scelto di dimenticarmi di quella parte di me. Una parte che, dal mio punto di vista sarebbe stata sempre il motivo per cui io sarei stata un passo indietro agli altri. La parte che mi rendeva diversa.
Ho preferito dimenticarla. Ma lei non si è dimenticata di me.
Ancora oggi non saprei spiegare bene come è accaduto ma nel corso di quegli anni le mie difficoltà sono diventate il motivo per cui aver paura di ciò che invece prima amavo: la scrittura.
Per me scrivere non era più un modo per esprimermi ma era diventato, giorno dopo giorno, un costante sforzo di perfezione nel tentativo di non sbagliare, di non cadere. Le parole mi sono diventate estranee: rigidi schemi che io potevo facilmente rompere.
Così è stato per cinque anni. Cinque anni coronati dal colossale fallimento al tema di maturità (non dirò qui il voto solo per dignità). Un fallimento che sembrava confermare l’ipotesi che avevo sviluppato: scrivere non faceva per me.
Poi però qualcosa è cambiato.
Mi sono iscritta all’università. Ho scelto lettere.
L’ho scelta tra mille paure e ansie ed in parte perché incoraggiata dalla mia professoressa di italiano che credeva in me più di quanto non facessi io. Ma l’ho scelta perché dentro di me sapevo che non avrei potuto fare niente di differente.
Per la prima volta in vita mia ho scelto di non ascoltare le mie paure, i miei limiti ma di ascoltare me stessa. Ed ho scelto bene.
Mi sono ritrovata in un ambiente nuovo e sono ripartita. Ero ancora convinta che la scrittura non facesse per me, ma per la prima volta ho capito di non essere “sbagliata”.
Avere attorno un ambiente che sentivo essere davvero giusto per me, un ambiente in cui sentivo di poter essere me oltre tutte le barriere che mi ero imposta è stato il mio punto di partenza.
Ho rimparato (e tutt’ora rimparo) che io non sono i miei limiti, che la mia dislessia non mi definisce e col tempo mi sono innamorata di nuovo della scrittura.
Non grido al miracolo per questo. Non ho ancora fatto del tutto pace con la dislessia e la convivenza non è sempre semplice.
Le mani mi tremano ogni volta che devo inviare un’email ad un professore per chiedere di avere più tempo ad un esame scritto.
Odio con tutta me stessa il correttore automatico quando mi segna una parola come sbagliata.
Ho un evidente problema con gli accenti, e ancora oggi vorrei non dover convivere con tutto ciò.
Ma oggi so che quella bambina aveva ragione.