25 novembre
Cronache di un BL

“Ho ascoltato il buio”: storia della notte che fu il mio 25 novembre

Tempo di lettura: 3 minuti

“Per tutta la vita 
la paura avrà il suono di quei passi 
veloci 
sull’asfalto
tra le mani
la fredda difesa inutile delle chiavi
di casa” 

L’ho scritto io, neppure ricordo quando. Solo una cosa ricordo: il buio, quello della notte. È nel silenzio che la mia mente urla, che fa spazio a ciò che di giorno nasconde. Non so perché, eppure quando il mondo smette di vivere, io ridipingo la realtà. A volte però mancano i colori per farlo. 
Così uso il nero. Lo stesso che, di tanto in tanto, ho nella pancia. Si trova proprio lì: sotto il seno e sopra il bacino. Non è cattivo. Col tempo abbiamo imparato a conoscerci.  Lui ha il sapore del vuoto. Non quello che ti dà le vertigini o ti fa barcollare. È un vuoto diverso. Una volta, per descriverlo, ho usato un’immagine: un buco

Il mio nero, quello che sa di vuoto, è simile ad un buco. È l’assenza in cui si nasconde la presenza di quei pezzi di realtà che, quotidianamente, tento (tentiamo) di nascondere. Di tanto in tanto però ritornano e la notte in cui ho scritto queste parole alcuni di loro erano tornati.  

Così dal vuoto ho estratto.  

Da buco si è ricomposta una prima immagine dai contorni sfilacciati come l’orlo dei pantaloncini che indossavo quel giorno. Era un giorno di estate senza il sole. Sotto nuvole che sapevano di pioggia camminavo con accanto mio fratello. All’epoca lui aveva solo dodici anni. Era piccolo. 
Un bambino che, dall’alto dei miei quattro anni in più, io credevo di poter proteggere. Ma come fai a proteggere qualcun’altro in un mondo che ti vede come preda da cacciare?  

Due sguardi in grado di guardarmi senza realmente vedermi e poi quelle parole. Quelle frasi che con incredibile precisione scalfivano sulla pelle delle mie gambe la vergogna d’esistere.  

Le immagini non hanno un tempo, al massimo hanno uno spazio. Nella notte, quell’immagine, si è ripresa i centimetri di carne. La carne da cui ero stata espropriata per poter, come al banco del mercato, stabilirne il valore. 
Chissà se hanno applicato lo sconto per l’anima di cui si erano dimenticati.  

Il mio corpo 
in fondo
mio 
non lo è mai stato”  

Poi, di nuovo, nella notte, un’altra immagine. 
Era inverno. Un inverno gelato come solo quello tedesco sa essere. I brividi che tratteggiavano la mia figura, nell’immagine, non erano però brividi di freddo. Mi attraversavano il corpo immobile mentre una mano, controllata dall’alcol, faceva su e giù sulla mia coscia. 

“Perché non l’hai fermato, perché ti sei alzata solo dopo un po’?”. Questo è stato il leitmotiv per molto tempo. Ripetuto senza sosta dal tribunale che la mia mente aveva creato. Io, unica giudice e imputata, mi continuavo anche a chiedere come poi io gli abbia potuto permettere di tenermi ferma, accanto a lui sul letto mentre il suo braccio circondava le mie spalle.
Domande senza certezze. L’unica sicurezza è quel frammento di me piegata sul cesso la mattina dopo mentre, tra la bile e le due birre bevute la sera precedente, tentavo di rimettere anche la sensazione della sua mano sul mio corpo.   

Quanto le devo?” 
“Se vieni a letto con me per te è gratis”
Le parole risuonano ancora 
in quell’angolo della stazione a Milano
lasciate all’ombra 
di una vergogna
che spoglia 
davanti al silenzio.  

La notte ancora ha concesso lo spazio. Il vuoto ha portato alla luce le linee del mio volto, indurite da quella risposta a cui non volevo credere. Per tre volte ho chiesto di ripetermi ciò che aveva detto. Per tre volte ho lottato con la speranza di sbagliarmi, mentre nelle ossa soffiava la vergogna. 
Quella vergogna che era giusta condanna per non aver saputo come reagire e per aver avuto “l’ardire” di sentirmi bella, poco prima, nello specchio di casa mia.
Ho rivisto il dito, il mio dito, ancora una volta puntato contro di me, unica imputata mentre la mia rabbia urlava l’innocenza che non mi sono mai concessa.  

Così dal vuoto si è ridisegnata la realtà. 

Di ogni tratto però non sono responsabile. Quelle immagini, che il buio mi ha riconsegnato, non sono mai state mie. Appartengono ad una società malata. La stessa che oggi, il 25 novembre, parlerà di violenza contro le donne ipocritamente. 

Condivideranno foto sui profili social e sprecheranno parole ma il giorno dopo sarà già tutto dimenticato. Non interverranno per fermare gli amici dal compiere una molestia, non alzeranno la voce per quella collega costretta al licenziamento perché madre, non si presenteranno in aula il giorno in cui si discuterà un disegno di legge in contrasto alla violenza di genere. Non faranno nulla di tutto ciò perché in fondo “ce la siamo cercata”. Così sopravvivono catcalling, molestie, stupro, femminicidi in una società che continua a non voler vedere, a ignorarci mentre moriamo. 

Eppure a volte sarebbe così facile, non si dovrebbe neppure “aprire gli occhi”. A volte basterebbe solo saper ascoltare.  Ascoltare il buio.  

Miriam Ballerini
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