Il fantasma dei Natali sospesi
Racconti Brevi

Il fantasma dei Natali sospesi

Tempo di lettura: 6 minuti

Io non parlo né di vendette né di perdoni; la dimenticanza è l’unica vendetta e l’unico perdono
– Jorge Luis Borges

 

Il fantasma dei Natali sospesi

 

Ogni volta che si ritrovava a pensarci su, Timothy ne diventava sempre più convinto: i suoi fantasmi dovevano essere donna. Lo sapeva come si sanno le cose elementari, quelle che si apprendono da bambini: che il sole tra le stelle è la più buona, che il fuoco scotta, che una ferita sanguina fino a quando qualcuno non la bacia.
Adesso Timothy era cresciuto ed aveva imparato che il sole tra le stelle è solo quella più vicina, che il fuoco scotta anche se non si poggia il dito sopra e, soprattutto, che una ferita sanguina fino a quando non la si medica.

Eppure i suoi fantasmi dovevano essere donna.

Lo aveva sospettato la prima volta quando sentì il cuore scricchiolare sotto il peso di una bugia. Sua madre gli aveva promesso un fratellino.
Arriverà, tra un anno o due, gli ripeteva. Ogni due anni.
E dall’altra stanza, ogni due anni, la voce ferrea e sottile di suo padre sentenziava: “Non arriverà mai un fratellino, Tim. Tua madre adesso è vecchia”. E da quella bocca bagnata dal whisky, invero, non uscì mai una bugia.

Lo aveva ipotizzato quando, in terza elementare, la maestra, prendendolo per mano, gli aveva sussurrato: “Hai scritto una poesia deliziosa, Tim. Ma non è in rima baciata”.
Tornato a casa si rifugiò affranto nel seno della madre, la quale lo coccolò fino a farlo addormentare. E nel sogno il padre, la bocca che armeggiava col sigaro, gli dava dell’effeminato.

Lo aveva intuito infine al primo anno di liceo, quando Carol lo aveva preso in giro per i suoi pantaloni verdi e i suoi occhiali tondi. Per poi baciarlo. E iniziarlo all’amore.

 

Era da poco scoccata la mezzanotte tra il 24 e il 25 dicembre. Timothy armeggiava con la cartina stradale aiutato da una torcia quasi scarica. Ma doveva essere quasi arrivato, lo sapeva. Dopo aver attraversato un altro borough, infine, il ragazzo svoltò in una stretta stradina alle spalle di un pub.

E finalmente vide la porta verde e rossa che tormentava da anni i suoi sogni.
Chi l’avrebbe mai detto che i fantasmi abitassero al centro di Londra, pensò.
Dopo aver inspirato profondamente ed essersi armato di coraggio, Tim bussò delicatamente alla porta. È pur sempre mezzanotte.

Nessuna risposta.
Ci riprovò. Stesso risultato.
“Potrai provarci ancora e ancora, ragazzo, ma l’unica cosa che otterrai sarà un forte dolore alle nocche. Quella casa è disabitata da anni. Forse da secoli”, disse una voce alle sue spalle.
“Le posso assicurare che…”, Timothy s’interruppe.
Alle sue spalle vi era solo una staccionata con una folta coltre di neve.
Il ragazzo si guardò intorno, spaventato. Sto impazzendo, sentenziò nella sua mente.

Dopotutto era a caccia di fantasmi, quella notte.
Si girò nuovamente verso la porta.
Era aperta.
Dopo un istante di esitazione il ragazzo scostò la porta col piede, lentamente.
Poi entrò.

Ci volle un po’ di tempo affinché la vista di Timothy si abituasse all’oscurità. L’unica fonte di luce proveniva dal lampione che illuminava l’ingresso del Darcy’s Pub. Dal piano terra pareva davvero di trovarsi in una casa abbandonata. Al lato della stanza vi era un tavolo senza un piede, che restava in equilibrio solo perché poggiato al muro. Dall’altra parte una sedia faceva da trono a una maestosa bambola che – Timothy ne era convinto – cinquant’anni prima aveva suscitato l’invidia di tutte le bambine del quartiere.

Ciò che catturò l’interesse del ragazzo fu però l’immensa distesa di quadretti che tappezzava le pareti. Dopo aver dato un paio di colpi alla torcia, che finalmente si accese, avvicinandosi il giovane orientò il fascio di luce verso i dipinti.

Non erano quadri.
Erano fotografie.
Della sua infanzia.

La torcia gli cadde dalle mani. Il ragazzo era pietrificato.
La sua prima macchinina, il giorno in cui cadde dal cavallo a dondolo, il primo picnic sui prati di Primrose Hill quando capì, a sue spese, la differenza tra mangiare la lattuga e le erbacce del prato. Tutto era documentato sopra quella carta da parati gialla.

Il ragazzo era atterrito, ma non del tutto sorpreso. Dopotutto si trovava lì per un motivo.

E il motivo non tardò ad arrivare.

Timothy non si girò, ma sapeva, sentiva, che qualcuno o qualcosa era dietro di lui. E non si mosse neppure quando, facendosi spazio nel buio asfissiante, una mano si agitò nell’oscurità e gli carezzò il collo.
“Mi aspettavi, non è vero?”, domando al vuoto.
“A dire il vero no. Mi hai svegliato col tuo baccano tremendo”, rispose il vuoto.

E si voltò.

Quella notte di dicembre, tra la vigilia e il Natale, Timothy non solo scoprì che il suo fantasma era donna, ma anche che aveva una folta chioma rossa e lentiggini quante erano le imprecazioni apprese durante l’intervallo, a scuola.

“Per vedere”, esordì il ragazzo, ma poi s’interruppe per prendere fiato, “attraverso i tuoi occhi i miei Natali passati. E del perché hai lasciato che tanta sofferenza m’inondasse il cuore”.
Le labbra del fantasma si strinsero in una risata soffocata.
“Non funziona così, piccolo Tim. Insomma, non hai letto Canto di Natale di Dickens? Siamo noi ad andare a trovare gli uomini, non il contrario”.

Lo spettro si portò una sigaretta alla bocca e aspirò avidamente.

“I fantasmi fumano?”, domandò sorpreso il giovane.
“Fa più male a voi che a noi, questo è sicuro”, rispose con un ghigno. “Ma ormai sei qui”, proseguì, “e mi hai svegliata da un sonno che durava da un anno. Vuoi vedere i tuoi Natali passati? Così sia. Ma ti avverto, giovane Tim: il passato ha fascino e catene, ed è difficile tornare al presente se ci si culla troppo”.
Il fantasma cinse il corpo del ragazzo con un braccio, e con le gelide dita della mano gli chiuse gli occhi.

E fu il buio.

 

Il salone era addobbato a festa. Al centro svettava un albero di Natale immenso, il più alto del mondo!, pensava il piccolo Tim. Era seduto per terra, intorno a lui gli altri bambini della famiglia. Armeggiava con un trenino bianco e blu, uno di quelli con la molla nelle ruote posteriori. Ma Tim non lo faceva sfrecciare sul pavimento, lo teneva saldamente fermo sul parquet.
Non è ancora l’orario di partenza. Se inizia adesso la corsa arriverà in anticipo a Leicester Square, e i pendolari perderanno la coincidenza!

La mamma gli si avvicinò per dargli una fetta di pudding, lui la ringraziò quasi senza farci caso. Il suo mondo, in quel momento, era una stazione con orari ferrei e regole da rispettare. E lui, il capostazione, aveva il compito di vigilare sul quel mondo. Il pudding, la sua paga.

I bambini giocavano, le madri parlavano, i padri fumavano.

E Timothy amava tutto ciò.

Poi qualcosa negli occhi del piccolo cambiò. Alzò lo sguardo per guardarsi intorno.
I bambini giocavano, le madri parlavano, i padri fumavano.
D’improvviso, una tristezza atavica gli riempì di lacrime gli occhi. In poche ore tutto sarebbe finito.

“Ricordi cosa chiesi, in cuor mio?” domandò Timothy al fantasma. “Ti chiesi”, proseguì, senza aspettare risposta, “di concedermi un Natale che fosse una vigilia, e una vigilia che fosse Natale. Perché non ci sarebbe stato nulla di più bello che scambiare il proposito con l’attesa, il desiderio con l’accettazione. Un Natale come un treno in ritardo, un vagone sul quale nessuno vuol salire. E una vigilia carica di passeggeri in festa”.

Il fantasma gli carezzò dolcemente i capelli. “No, piccolo Tim, in cuor tuo sapevi cosa sperare. Mi chiedesti in realtà di fermare quel momento, incatenare un giorno a un anno, a una vita. Perché i bambini giocavano e le madri parlavano e i padri fumavano.

Perché i bambini non t’indicavano, quel giorno, chiamandoti Timothy dalla bocca senza suono.

Perché le madri non ti proteggevano da pericoli inesistenti, facendoti sentire inadeguato agli occhi di tutti.

Perché i padri, pur continuando a fumare, non ti avrebbero lanciato sguardi di sommessa delusione chiamandoti effeminato.

Il giovane scoppiò in lacrime. In quel momento Timothy, il ragazzo che si affacciava all’età adulta, e Timmy, il bambino spaesato e incuriosito, si tenevano per mano. E l’abbraccio che ne scaturì, fragile e disarmante, fu la naturale prosecuzione di quel Natale sospeso. Il piccolo guardava l’uomo con speranza, l’uomo guardava il piccolo con tacita nostalgia.

“Dobbiamo andare. È tardi”, disse il fantasma sfiorando il giovane appena.

E fu di nuovo il buio.

 

Timothy si trovava nuovamente di fronte alle foto appese alla parete. Sorrise osservandone una di lui intento a mangiare una coscia di pollo troppo grande persino per le fauci di una belva.

“Non andare ancora”, supplicò il ragazzo. “Voglio vedere il mio Natale presente e quello futuro”.
“Sono un fantasma, mica un indovino”, osservò seccato lo spettro.
“Ma Dickens, nel suo Canto di…”
“E cosa avrebbe dovuto fare, pover’uomo? Scrivere un racconto di quaranta pagine? Suvvia, ovvio che ci abbia messo un po’ di finzione”.

I due si sorrisero.

“Qual è il tuo nome?” chiese Timothy
“Non ho nomi”, rispose il fantasma. “Solo titoli. Alcuni mi chiamano Amante o Distruttrice, altri Madre, Padre o Sorella. C’è chi mi chiama Dolce Morte e chi mi chiama Dolore del parto”.

“Ed io… come dovrei chiamarti?”
“Puoi chiamarmi Rancore, Senso di colpa. O Perdono. Sta a te decidere”.

Perdonare e perdonarmi. Assolvere il dolore dopo aver abbracciato un sangue caldo che è il mio.

“Ma puoi decidere con calma. Ora dormi, al tuo risveglio devi festeggiare il Natale del presente”.

E cadde in un sonno pieno di ricordi.

 

Il sole era sorto da poco quando Timothy aprì gli occhi nel suo letto. La scoperta delle luci dell’alba fu una piacevole carezza. Il ragazzo si alzò dal letto per affacciarsi alla finestra. A Londra nevicava. Sorrise.

Era Natale.

Né il giorno prima, né il giorno dopo.

Un oggetto poggiato sulla mensola lo ridestò dal torpore mattutino.
Un trenino bianco e blu.
Lo afferrò, se lo girò tra le mani, lo posò.

Poi lo riprese, azionò le molle delle ruote posteriori e lo lasciò sfrecciare sul pavimento.

Questa volta – si disse – , non ci saranno treni da prendere in orario. E i pendolari che perderanno la coincidenza avranno una dolce sorpresa: il piacere dell’attesa di un altro treno, forse più bello o forse più pieno.

Ogni volta che si ritrovava a pensarci su, Timothy ne aveva la certezza.
il suo fantasma era donna.

La sua speranza, invece, era un bambino spaesato e incuriosito.

 

Giuseppe De Filippis

 

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Giuseppe De Filippis
Studente di scienze politiche, vive a Napoli. L’attualità è l’amorevole moglie che lo fa sentire al sicuro, la letteratura la sua amante capricciosa. Inesorabilmente devoto alla poesia e all’orrido non necessariamente in quest’ordine. Ha un dattiloscritto nel cassetto. Ha da poco capito che il cassetto è se stesso.